venerdì 25 agosto 2023

Blinnenhorn o Corno Cieco (3374 m)

 

Il 20 agosto 2023, nel primo pomeriggio, sono stato in Val Formazza. Poco prima della frazione di Riale, essendo di domenica, un tizio mi impone di lasciare l'auto su un pratone per soli 5 euro: per la diga di Morasco c'è la navetta, un pulmino da 9 posti che passa ogni 20 minuti e lascia la gente sotto la diga. Non ho alternative e accetto.

Con pochi passi salgo sulla diga e la percorro per poi costeggiare il lago di Morasco sulla destra (la sponda nord) su sterrato fino ad una funivia privata dell'Enel. Imbocco il sentiero G00 in direzione nord-ovest (dai cartelli sembra la scelta obbligata) che consente il superamento del costone erboso che conduce ai piani superiori, fino ad un bivio.

Qui una palina (ce ne sono davvero tante in Val Formazza) mi invita a lasciare il sentiero per il Rifugio Città di Busto, a scendere di qualche metro su un baitello, superare il ruscelletto e a risalire a sinistra una dolce pietraia che diviene nuovamente sentiero tra spalle pratose e dossi erbosi, fino agli edifici del Rifugio Mores, presso la diga del Sabbione.

A questo punto, dopo essermi ben rifornito d'acqua ad una fontanella con il cartello "potabile", scendo a destra fino agli edifici di servizio dell'Enel e percorro tutta la diga sotto il sole pomeridiano di questo caldissimo agosto. Al termine della diga, un bel sentiero sulla sponda orografica sinistra, il G39, consente di superare il bacino artificiale in leggera ascesa fino al Rifugio Claudio e Bruno di quota 2710, uno dei due rifugi gestiti magnificamente dai volontari dell'OGM (Operazione Mato Grosso).

Ad attendermi, 11 fra adulti e ragazzi e qualche ospite come me. Qui, finalmente, levo gli scarponi, mi godo il fantastico panorama serale sul ghiacciaio del Sabbione. In attesa della cena, rileggo le parole di Battistino Bonali (scalatore deceduto nel 1993 sul in Perù) stampate sulle tovagliette di carta del rifugio:

"Grazie Montagna per avermi dato lezioni di vita, perché faticando ho imparato a gustare il riposo, perché sudando ho imparato ad apprezzare un sorso di acqua fresca, perché stanco mi sono fermato e ho potuto ammirare la meraviglia di un fiore, la libertà di un volo di uccelli, respirare il profumo della semplicità; perché solo, immerso nel tuo silenzio, mi sono visto allo specchio e spaventato ho ammesso il mio bisogno di verità e amore, perché soffrendo ho assaporato la gioia della vetta percependo che le cose vere, quelle che portano alla felicità, si ottengono solo con fatica e chi non sa soffrire mai potrà capire".

Il mattino seguente, il 21 agosto, dopo un'abbondante colazione, prima delle 8 sono già sul sentiero che parte da dietro la fontana del Rifugio, in direzione nord. Dopo il primo dosso erboso, il terreno diviene detritico, il sentiero si fa perfino sabbioso e la salita subito ripida e dura. Cammino in compagnia di alcuni volontari in servizio al Rifugio 3A.  Il tracciato si mantiene sempre ben evidente, fra sfasciumi, roccette, ghiaioni, fino allo scollinamento del ghiacciaio del Gries, a sinistra di una grande sella. Da qui, per la prima volta, vedo la cima (ed il motivo per cui si chiama Corno Cieco). A questo punto, seguo la cresta ed affronto gli ultimi ripidi metri su fine detrito che conducono alla vetta. In cima al Blinnenhorn, in meno di un'ora e mezza dal Rifugio, trovo finalmente una croce di legno, un altare di pietra ed un piccolo manufatto del CAI di Cermenate recante una poesia di Antonella Fornari:

"... la mia casa è quassù fra lo sconfinare delle vette e i racconti del vento... la mia casa è quassù fra le altere pareti e misteriosi silenzi... la mia casa è quassù fra garrule acque e dolcissimi ricordi. Qui sono io, qui è la mia casa, qui sono le mie montagne".

giovedì 24 agosto 2023

Pizzo Tambò (3279 m)

 

Dopo aver "scollinato" il Passo del San Bernardino e affrontato i sinuosi tornanti dello Spluga, il 19 agosto 2023, giungo sul Passo, sul valico italo-svizzero dello Spluga, già percorso dai romani nel I secolo e, in linea d'aria, punto d'Italia più lontano dal mare. Qui finiscono le Alpi Lepontine ed iniziano quelle Retiche, qui terminano le Alpi Occidentali ed iniziano quelle Orientali.

A Passo trovo miracolosamente un posto dove parcheggiare l'auto, sotto il cartello che indica il confine di Stato.

Il sentiero per il Tambò (o Tambo) inizia proprio dietro l'edificio della dogana. Da qui viene rimontato il grande dosso erboso in direzione ovest e guadagnato lo spartiacque italo-svizzero (segnalato da un cippo di confine di pietra).

Il sentiero resta sempre ben marcato, calpestato e ricalpestato ogni anno dai numerosi escursionisti innamorati di questi cime.

Supero rapidamente dossi e pendii rocciosi fino a guadagnare il dosso della cresta. Poco più avanti la cresta si affila e raggiungo le rocce del Tamborello (o Lattenhorn) evitando di giungervi in cima con un breve aggiramento. Attraverso alcuni estesi macereti e risalgo qualche canalino roccioso fino ad una caratteristica spianata a quota 2700.

Al termine della valletta, supero un cucuzzolo roccioso giungo fino alla Sella di quota 2810 circa e proseguo sul costone puntando ad un grosso ometto di pietre fino a guadagnare il versante sud-ovest della montagna.

A questo punto, supero una serie di terrazzi rocciosi e alcune fasce di pietrame, con un occhio alle tracce e uno ai numerosi ometti di pietra, e giungo al cosiddetto Pan di Zucchero, una piccola vetta con una conca a circa 3000 metri. Piego così a destra, perdendo qualche metro di quota su ciò che resta del nevaio della Vedretta della Spianata, ma cercando sempre di restare il più possibile sulle cenge rocciose più alte.

Dopo un breve tratto di sfasciumi, giungo alla base della cresta sud della montagna. Bisogna ammettere che la sensazione offerta da questa montagna è quella di una sconfinata ammucchiata di rocce, quasi un'unica immensa pietraia.

Una traccia di sentiero risale ora su zone di sfasciumi alternate a pietre di medie dimensioni, su ripido terreno. Affronto così la seconda parte della cresta, con pendenze crescenti. Mi sposto a destra fino ad incrociare una fascia rocciosa. Traversando il versante ovest, supero alcuni terreni rocciosi con facili passaggi di I grado, talvolta verticali ma mai esposti, e giungo sulla spianata sommitale del monte dove mi aspetto un ometto di pietra ed una croce di vetta.

Wasenhorn o Terrarossa (3246 m)

 

Passo del Sempione, 16 agosto 2023. Giungo quassù dopo un lungo viaggio che termina con l'attraversamento dei centri di Trasquera, Iselle, della dogana italo-svizzera, delle Gole di Gondo, Gabi, Simplon Dorf, Eggen, fino ai 2005 m. di questo meraviglioso Passo del Canton Vallese dove finiscono le Alpi Pennine e iniziano le Lepontine. Qui dove si ha la fortuna di calpestare l'antica mulattiera romana edificata nel 47 d.C., dove transitarono i Walser nel XII secolo, commercianti, soldati, gli ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, papa Gregorio X, gli ingegneri napoleonici e i galoppini del barone Stockalper, il boss del commercio del XVII secolo con base a Briga.

Parcheggio l'auto proprio davanti all'Ospizio del Sempione (edificio terminato da Stockalper nel 1666) ed imbocco immediatamente la stradina asfaltata sulla sinistra dell'Ospizio che dopo pochi metri conduce alle casette di Rotels (2040 m). Qui una palina indica un sentierino a destra che risale i pascoli soprastanti fino ad un grosso traliccio. Superato uno spallone erboso, a circa 2200, piego decisamente a sinistra lungo un sentierino che costeggia un canalino d'irrigazione e che conduce all'interno del Vallone Chalti Wasser.

Risalgo il vallone in diagonale in direzione Mäderhorn (2852 m), supero una vasta pietraia solcata da numerosi ruscelletti che scendono dal Chaltiwassergletscher (il ghiacciaio) e dotata di qualche ponticello in legno e giungo così su un'estesa placconata di rara bellezza. Un piccolo gregge di pecore/capre davvero strane, con pelo lungo, muso nero e qualche strano cornetto a spirale, mi passa accanto mentre, seduto, mi godo un sorso di caffè. A destra, l'Hübschhorn (3192 m) mi guarda impassibile. Mi sorprendo di quanta acqua coli da queste montagne ed il penoso stato in cui mi appaiono oggi questi ghiacciai.

Risalgo il valloncello su pietrame e altre facili placconate e aggredisco una ripida china di pietrame morenico che mi porta a quota 2790, un colletto che si affaccia sulla conca dello splendido laghetto di Chaltwasser.

A questo punto, abbandono il sentiero che attraversa la conca, viro a sinistra e risalgo zigzagando le pendici detritiche del Mäderhorn al fine di guadagnare la cresta SO del Wasenhorn, quella più diretta ma anche più impegnativa. Giungo così sulla Bocchetta della Mäderlicke (2887) dove un cartello mi intima di non toccare le bombe! Ne approfitto per ammirare il ghiacciaio sotto il Monte Leone, il re di queste montagne. Lo Chaltwassergletscher appare davvero molto crepacciato, morente, disidratato. A questo punto non mi rimane che percorrere la cresta con passaggi su rocce anche di II grado. Cerco in tutti i modi di rimanere il più possibile vicino al filo di cresta, approfittando di alcune cengette, gradini rocciosi e facili saltini.

Giungo così in vetta dove trovo una croce di legno con un'inequivocabile targhetta metallica con tanto di Q-Code. Qualche metro più in là, un semplice ometto di pietra segnala il punto più alto della cima.

Un tizio, poco dopo le placconate, mi aveva raccontato di cosa avrei trovato sulla creste e, aveva aggiunto, di come sarebbe stato facile scendere buttandosi giù sui detriti in direzione della Cabane del Monte Leone. E così faccio. Scendo quindi quasi verticalmente cercando comunque di rimanere il più possibile vicino al filo della cresta S, fino a giungere al Monte Leone-Hütte (2848), un simpatico rifugio dove riempio la borraccia di acqua piovana al modico prezzo di 3 euro.

Da lì, ritorno all'Ospizio ricalcando le mie stesse orme.

lunedì 24 luglio 2023

La Cima di Corborant (3010 m)

 

Nelle Alpi marittime, ad un paio di ore da Torino o dalla costa ligure, c'è un angolo di mondo che andrebbe visitato da tutti: è l'alta Valle Stura di Demonte, il trampolino per il Colle della Maddalena, paradiso di centauri e camperisti, ma anche luogo di terre alte.

Superato Vinadio e lasciata la SS21 all'altezza di Pianche, si raggiunge Bagni di Vinadio e si prosegue per San Bernolfo, una località frequentatissima d'estate grazie all'attrazione turistica esercitata dal vivace rifugio Dahu de Sabarnui. Qui, lasciata l'auto in una delle piazzole oltre il borgo, ci si avvia lungo la carrozzabile che si inoltra nell'omonimo vallone rimanendo sulla sinistra orografica del torrente Corborant. Occorre qui assicurarsi di non dimenticare il caschetto in auto, utile per la risalita del canale finale.

La carrozzabile comincia a risalire il versante con ampie svolte, poi diviene sterrato, poi ancora sentiero,  fino a condurre al primo dei laghi superiori di quota 2500. Dopo quasi un'ora e mezza si giunge ad un incantevole specchio d'acqua, il lago Lausfer inferiore (2501 m), un posto ideale per crogiolarsi al sole in totale relax. Contornando il lago sulla destra, il sentiero prosegue dolcemente tra rocce montonate, residui franosi e piccole zone erbose, fino a raggiungere il più piccolo Lausfer superiore (2580 m). Da qui è già possibile ammirare l'intera conca glaciale caratterizzata dall'incredibile mole di rocce franate (chissà quando) che contiene le pietraie dei monti e dal profilo delle creste del Corborant e del suo gendarme.

Costeggiando il lago ancora una volta sulla sponda orientale, si imbocca l'evidente sentiero che conduce al testa detritica del vallone, tra pietraie, creste moreniche, cengette e accumuli di massi franati. Dopo un lungo traverso in salita che consente di portarsi a ridosso dei contrafforti del Corborant, con una larga curva, si giunge in corrispondenza del marcato canalino detritico tra il Gendarme del Corbobant e la cima principale. Si risale alla meglio il canale, davvero molto deteriorato, fino all'anfratto formatosi in seguito alla caduta di un gigantesco masso, un passaggio chiamato "Buco della Marmotta". Infilatisi nel buco, si sale rapidamente il muro con l'ausilio di qualche staffa di ferro e si esce da un foro posto alle proprie spalle.



Fuori da buco si prosegue su facili roccette e detriti fino a giungere sulla forcella che consente di affacciarsi finalmente sul lato francese della montagna (2900 m). La traccia, anche contrassegnata da tacche di vernice rossa, conduce ora a sinistra ad un diedrino gradinato e ad una placca liscia che viene superata con l'aiuto di catene.

Risalendo la cresta del Corborant per cenge e saltini rocciosi si arriva con pochi passi in cima alla punta, dove ci sarà un insolito sovraffollamento di segnali ad attenderci: croci, ometti di pietre, casette di ferro, targhe dedicate ad amici defunti (3010 m). Addirittura due libri di vetta.

Per la discesa occorrerà ritornare sui propri passi, cercando di non gettare pietre sugli escursionisti in salita nel canalino ed accettando con tibetana rassegnazione il lungo e monotono sviluppo della carrozzabile che conduce a San Bernolfo.

lunedì 17 luglio 2023

Il Granero (3170 m)

L'avrò visto innumerevoli volte dall'alto delle vette circostanti, l'avevo scrutato ben bene dal Meidassa, me lo ero appuntato più volte tra i progetti escursionistici... Tutti a Luserna mi dicono che l'acqua che fuoriesce dal mio rubinetto sgorga dal suo ventre, che questa montagna accessibile anche dalla Val Pellice è più amata dai francesi con la febbre da "tour" che da noi italiani... Così il 14 luglio del 2023, approfittando del passaggio in zona del caro Marco, eccomi pronto per esplorare da vicino, e di persona, la bella piramide rocciosa del Granero.

Lasciata l'auto a poche centinaia di metri dal Rifugio Barbara Lowrie (1756 m), nel Vallone dei Carbonieri, raggiungiamo il rifugio, ci beviamo un caffè, diamo un'ultima controllata allo zaino e, attraversato il torrente, cominciamo il nostro percorso di avvicinamento imboccando il sentiero 112 che conduce nel cuore della vallone del Pis. Lungo il sentiero una femmina di stambecco di color quasi bianco ci viene incontro. Qualche secondo di studio reciproco e continuiamo la nostra marcia. Affrontiamo l'ultimo ripido tratto e giungiamo rapidamente sul Col Manzol (2694 m) dove ci godiamo una meritata pausa tra le nebbie di calore che salgono dalla valle e gli squarci di sole che rassicurano l'animo. Un fugace sguardo a destra e sinistra, alle coperte cime del Manzol, del Meidassa e del Granero, al Lago Nero intrappolato sotto di noi, e cominciamo la discesa lungo l'Adret del Laus, il valloncello che ci porterà dolcemente al Rifugio Battaglione Alpini Monte Granero (2377 m).

Arriviamo al rifugio verso le 17, in tempo per una doccia calda ed una breve esplorazione dell'area. Si tratta del rifugio con la più lunga storia alle spalle dell'intero arco alpino. Ideato nel 1926 ed inaugurato nel 1928, negli anni 80 venne ampliato ed ammodernato fino a trasformarlo in una confortevolissima struttura da 50 posti, con docce calde e wi-fi. In posizione sopraelevata, il bivacco di recente costruzione per amanti dell'inverno. Poco prima di cena, ecco l'imprevisto: tre musicisti francesi, in tour attorno al Monviso con fisarmonica, violino, chitarra e tromba a seguito, cominciano il loro concerto di musiche e canti, e tra una gavotte francese ed un pezzo jazz afro-americano, ci accompagnano a cena. Il dessert è ancora meglio: alla luce del tramonto delle 20:30 e al fresco dell'altitudine, il concerto dei tre musici si sposta all'esterno del rifugio creando per gli ospiti un'atmosfera magica di incredibile bellezza.

Lasciamo il rifugio la mattina seguente alle 8. La giornata è splendida. Scendiamo lungo le rive del grande Lago Lungo, uno splendido specchio d'acqua in prossimità delle sorgenti del torrente Chisone. Qui una palina ci segnala la direzione da prendere per il Passo Seillierino e dunque per il Granero. Ci voltiamo per ammirare questo incredibile "giardino glaciale" su cui è adagiato il rifugio, composto da dossi montonati e conche di sovraescavazione, punteggiato di massi erratici e cordoni morenici. Una goduria da geologi. Sorprende l'intensità e la luminosità del color verde. La Schina d'Asu e le creste del Barsujas interrotte dai passi si riflettono nelle acque del lago e moltiplicano gli effetti della luce del mattino.

Cominciamo a risalire il sentiero lungo il filo della cresta morenica laterale chiamata in dialetto l'Isina d'Aze (la schiena d'asino). I tre musici francesi, come le fate che popolano le leggende di questa valle, ci precedono coi loro strumenti in spalla. Al bivio per il Passo Seillierino, tiriamo dritto fino ad entrare nella vasta pietraia alla base delle pendici del monte. Qui seguiamo le tacche bianco-rosse ed i numerosi ometti che ci guidano nell'attraversamento della distesa di pietre, massi erratici e pozze glaciali. Qua e là qualche sacca di neve. Gli artisti abbandonano i loro strumenti sotto un bel monolite e ci seguono nella ricerca dei bolli rosa che segnalano la pista di attacco all'ultimo canalino che scende dalla vetta. Infiliamo il caschetto e cominciamo a risalire il versante roccioso di questa imponente piramide tra pietre, detriti e sfasciumi. Troviamo alcuni passaggi di I-I+ che, superati di slancio, ci conducono fino alla base del castello finale di roccette.

Giunti al termite nel canalone ci si palesa in tutta la sua maestosità l'onnipresente mole del Re. La visione del Monviso. Adagiato sulla sella e cementato sulla roccia, un libro aperto di pietra sentenzia "Confidate in perpetuo in Dio, poiché Dio è la roccia dei secoli"; sull'altra pagina il celebre motto valdese Lux lucet in tenebris.

Il castelletto di roccette finale è l'ultimo passo alla vetta. Lo superiamo senza problemi e giungiamo così ai piedi della statua della Vergine a grandezza naturale (3170 m). Un ovale di pietra ne custodisce la dedica: "La Giovane Montagna di Moncalieri a Maria Immacolata 1958". In cima saremo una decina e ci si muove a fatica. Qualche escursionista scende, mentre un paio di arrampicatori arrivano da altri versanti.

Il ritorno a casa si svolge a ritroso sulle stesse linee percorse per venire fin qui. Ma molte cose sono nel frattempo cambiate e ce le portiamo dentro, negli occhi, nel cuore, e sul viso. Una sensazione di piccolezza di fronte a tanta grandiosità, un senso di gratitudine profonda per la vita, per il vento ed il sole, per la luce ed il movimento. Per la melodia degli strumenti ed il calore degli amici. Per la ricchezza delle differenze e la forza degli universali.

La nostra gita termina, dunque, al rifugio Barbara, tappa dell'annuale Trail Tre Rifugi, con un ricordo in più nell'anima ed una birra in mano.

giovedì 13 luglio 2023

Il Monte Ferra (3094 m)

 C'è una montagna, nella Val Varaita di Bellino, che pensavo di aver già fatto mia: il Monte Ferra. Il 15 luglio del 2016, infatti, al termine di una turbolenta nottata che ricoprì la valle di 15 cm di neve, risalii il Vallone di Rui fino in fondo per poi guadagnare il passo di Fiutrusa e, da lì, risalire la cresta ricoperta di verglass, fino alla croce di vetta. Pensavo, quel giorno, di essere giunto sulla cime del Ferra. E invece no. Era la Punta di Fiutrusa, più alta di qualche metro (3103 m). A distanza di 7 anni, guardando qualche immagine su internet, mi accorgo del grave errore: la croce di vetta non è la stessa. E dunque, eccomi di nuovo nella stessa Valle di Bellino, il 15 luglio del 2023, per rimediare all'errore.

Lascio l'auto nei pressi del rifugio Melezè (1800 m ca). Alle 9:07 imbocco un tracciato che costeggia un'area camping, del tipo tendopoli, segnalato da alcune paline come il GTA che conduce alle dirupate grange sovrastanti l'area. Superata l'area camping, entro nel bosco e giungo effettivamente alla prima di queste grange. Qui trovo un'indicazione per il Colle di Reisassetto, proprio ciò che cercavo. Svolto a sinistra. In effetti, mi rendo subito conto di dover tenere la sinistra il più possibile per non perdere il Vallone di Reisassa, quello giusto per il Monte Ferra.

Dopo il bosco, risalgo i pratoni coltivati a fieno per le numerose vacche al pascolo, dove l'erba alta ricopre tutto. Giunto finalmente nel vallone, il sentiero si distende sul fondo degli avvallamenti pascolivi. Alle 10: 30 arrivo nei pressi della diruta grange di Reisassa (2385 m). Qui trovo un bivio con due cartelli indicatori scritti a mano: a destra per il Monte Ferra, a sinistra per il Colle di Raisassetto.

Il sentiero diviene subito traccia, e la traccia spesso diviene invisibile. In questo caso, vado ad intuito. Aggiro i ruderi della grange e proseguo sul fondo del vallone. Il sentiero continua poco oltre sulle ondulazioni del terreno, tra bassa erba e pietrame, segnalato talvolta da ometti e tacche rosse. Dopo un buon tratto, alcune tracce mi portano a piegare verso destra, per un discreto traverso ben segnato che attraversa una copiosa risorgiva detta Les Fans (2550 m ca), una deviazione necessaria per superare il modesto salto roccioso che divide il vallone in due distinti livelli.

Superato il gradone roccioso, giungo, per tracce ora meglio visibili, alla conca terminale del vallone dove, alla base del Ferra, mi aspettava il Lago Reisassa (2720 m), uno dei rari specchi lacustri del bacino di Bellino, con la sua caratteristica forma di cuore. Sono le 11:43.

Qui ho modo di ammirare con calma questa massiccia montagna fatta di rocce metamorfiche, di scisti e di rioliti del Permiano, seduta sulla costiera che divide i valloni della Varaita di Chianale e di Bellino. Mi ricordo di aver letto da qualche parte che il nome "Ferra" dovrebbe derivare dal tardo latino fèrus, termine usato per designare una località isolata e selvaggia. In effetti, a parte una famigliola di stambecchi e qualche marmotta, pare di essere in un angolo abbandonato e sperduto del mondo.

Raggiungo la riva settentrionale del lago dove parte un evidente sentierino che sale alla meglio il pendio detritico-terroso della base del monte. Supero sulla destra un affioramento roccioso che emerge dal terreno scistoso e raggiungo così la base del versante sud della montagna (2870 m).

Da qui risalgo verso destra il dirupato versante, fino a guadagnare l'evidente avvallamento che conduce direttamente all'insellatura che forma lo spartiacque Bellino-Chianale (3024 m). Sono le 12:47. Ora di pranzo. C'è sole, qualche nuvola ristoratrice e, soprattutto, tira vento. Non mi rimane che risalire la cresta rocciosa che, in pochi minuti, mi conduce alla piccola croce del Monte Ferra (3094 m): una croce di ferro battuto, questa volta non cromata come quella della Fiustrusa, e del tutto uguale a quella vista su internet. Stavolta sono sul Ferra!

Mi fermo a guardare i monti circostanti: la Punta di Fiutrusa, il Pelvo d'Elva, ma soprattutto il Monviso. Il panorama sul Re delle Alpi è spettacolare! Giro un time-lapse di 20 minuti con le nuvole che attraversano velocemente l'inquadratura, e le ondate di vapore che salgono dal fondovalle verso il cielo, come lingue bianche arrotate, pettinando le creste. Il vento schiaffeggia la faccia e fischia nelle orecchie.

Dopo circa tre quarti d'ora comincio la discesa. Non voglio fare tardi. Scendo tentando di ripercorrere il tracciato di salita. Giunto a 2400 m mi tuffo nelle nuvole, che diventano nebbia ai 2200 e acqua intorno ai 2000, acqua che si infila nelle calze e riempie gli scarponi. Nei pratoni di fieno mi infracico fino alla vita. Arrivo a S. Anna di Bellino intorno alle 16:00, letteralmente zuppo di acqua, erba e fango. Qui, benedico l'idea formatasi nella mia mente la mattina di tenere in auto un cambio di vestiti asciutti in più.

domenica 10 luglio 2022

La Cima Bianca (3009 m.)

“E cammina, cammina…”

Quante volte abbiamo letto quest’espressione nei libri di favole scritti per i più piccini. Ebbene, ecco qui una vetta che ben esprime il senso di queste parole. Chilometri e chilometri di avvicinamento su strada interpoderale, perfettamente in piano, per poter poi attaccare una montagna dal nome, anch’esso, fiabesco: la Cima Bianca, un 3000 posto a sud del Cervino e raggiungibile in 4 ore dalle frazioni superiori di Torgnon.

Siam saliti l’8 luglio del 2022 in Valtournenche. Superato l’abitato di Torgnon e la frazione di Septumian, al termine della panoramica strada asfaltata che conduce ai verdi pratoni del Plan Prorion - un verde anfiteatro altamente turistico raccolto dalla dorsale formata dalla Becca d’Aver e dall’anticima del Mont Méabé -, lasciamo l’auto in località Chantorné-Dessus.

Da qui saliamo lo sterratone che conduce al laghetto di Gordzé (bar-ristorante e attiva attrazione turistica della valle) e, giunti ad un bivio, imbocchiamo la strada interpoderale di sinistra per l'Ospice de Chavacour segnata col n. 1, mèta di camminatori, ciclisti semielettrici e numerosi cavallerizzi che scorrazzano tra la Bois di Chantoné e quella d’Arpeille. Da qui si comincia a camminare per circa un ora, tra boschi ed alpeggi (avvistate tre aquile rincorrersi tra le punte dei pini a bordo strada), sempre rigorosamente in piano.

Questo lungo tratto pianeggiante si sviluppa sul tracciato di un vecchio acquedotto chiamato Ru Verrayes e conduce ai pascoli degli alpeggi di Tronchaney, di Meiten, di Fossemagne e Château, presso l’Ospice de Chavacour. Superato l’ultimo alpeggio troviamo finalmente a sinistra la palina indicatrice per la Cima Bianca, il sentiero caratterizzato da bolli e frecce gialle n. 3 e 4.

Dopo un primo tratto su pascoli erbosi a sinistra dell'alpeggio di Crot de Loy, il sentiero sale a piccoli tornanti serpeggiando tra rocce ed erbosi pianori fino a superare un paio di ruscelli e giungere ad un promontorio roccioso da cui si scorge il bivacco Tzan, un manufatto in lamiera nei pressi di un laghetto e posto alle pendici della Pointe de Tsan, la padrona di casa di questo valloncello chiamato Comba de Chavacour. Si procede a sinistra di uno sperone roccioso, si supera un secondo promontorio e, poco prima di raggiungere il bivacco,  una pietra segnala il bivio tra gli itinerari 3 e 4. Occorre, dunque, svoltare a sinistra e seguire l’indicazione per il sentiero n. 3. In poco tempo si arriva così alla base dell’alpeggio diroccato di Erbion.

Superata la cinta muraria dell’alpeggio, saliamo gradualmente lungo la torbiera posta al centro del valloncello, fino a raggiungere una sorgente.

Il sentiero ora risale nei pressi di una morena, in parte su pietraia ed in parte su tracce erbose, a tratti poco visibili. Numerosi gli ometti che segnalano il tracciato di salita. Centro metri circa oltre la morena, svoltiamo a sinistra, in direzione della cresta, e risaliamo ripidi tornanti, a volte gradinati, a volte leggermente franati. Attraversati un paio di canalini giungiamo finalmente sul crinale dove, svoltando a destra, cominciamo a percorrere la cresta sotto lo sguardo indifferente di un camoscio. Giunti ad un bianco promontorio roccioso, lo superiamo sulla sinistra attraverso una sorta di canalino segnato dai soliti bolli gialli e da vari ometti. Scendendo leggermente e riguadagnando il filo di cresta in un paio di occasioni, arriviamo infine alla base della vetta su cui è posizionata una croce di legno. Una placca metallica sulla base della croce spiega: “Questa croce / testimonianza di una fede a vita / a protezione di quanti frequentano questi monti / Cima Bianca / I Cacciatori / 14-7-1996”.

Dalla vetta il panorama è semplicemente sublime: dall’Alta Val d’Aosta del Monte Bianco ai monti più prossimi, come la Becca di Luseney, la Pointe de Tzan, il Cervino, naturalmente, ed il gruppo del Monte Rosa, i 3000 della Valtournanche quali la La Gran Sometta, il Mont Roisetta, il Grand Tournalin, fino ai monti della valle centrale: il Tersiva, l’Emilius, il Gran Paradiso ed il Rutor.

Un’escursione lunga, dunque, di oltre 1100 m. di dislivello, ma soprattutto di tanto spostamento, di lunghe percorrenze e di un po’ di fatica.



mercoledì 27 ottobre 2021

Silenzio

 

Mi piaceva il silenzio. Era pieno di pace.

..

Quali distese di silenzio Dio ha creato in te per la contemplazione!

...

Se soltanto gli uomini riuscissero a capire a che cosa sono veramente destinate le tue montagne e le tue foreste...

Thomas Merton, 1915-1968

Il libro aperto di Paolo VI

"La natura è libro di Dio. È un libro aperto, stupendo, misterioso. Saperlo leggere è preghiera" (Paolo VI, 10 luglio 1977).

Ritorniamo "alla visione, alla conoscenza, alla contemplazione del libro immenso, stupendo, magistrale della natura. Essa ci rivela bellezze che il nostro occhio, di solito miope e distratto per le opere dell'uomo a noi vicine e necessarie, non sa più scoprire e osservare: essa ci apre i panorami di sconfinate immensità, e insieme ci rivela meraviglie microscopiche incantevoli" (Paolo VI, 28 luglio 1974).

lunedì 30 agosto 2021

Garmo Negro (3065 m.) sui Pirenei aragonesi

La Valle de Tena, nel cuore dei Pirenei aragonesi o centrali, ha tutte le caratteristiche per sorprendere ed impressionare gli escursionisti più esigenti: il mix di natura, fauna, flora e maestosità è quanto di più grandioso possa offrire questa alta terra. Risalendo la valle lungo la strada N-260 che da Huesca conduce alla frontera de Portalet seguendo il corso del río Gállego, poco prima del paesino di Escarrilla, svoltando a destra si raggiungono le case di Ponticosa e, andando oltre, l’enorme struttura del Baños de Panticosa, a quota 1600 circa, un balneario di acque termali già sfruttato in epoca romana.

Parcheggiata l’auto sotto gli alberi del grande parcheggio del Balneario, si imbocca il sentiero che, dalle sponde del lago (Ibón de Baños), risale rapidamente la lunga pineta che introduce nel vallone secondario di Argualas. Al termine della pineta, si dovrà svoltare a destra ad un bivio (indicazione “Garmo” su una roccia davvero poco visibile). Si risalgono così i pratoni, scostandosi per un poco dal corso del río Argualas, per acquistare decisamente quota. Poco oltre il sentiero incrocia nuovamente il rio per poi risalire, sempre con forte pendenza, fino alle pietraie superiori del vallone (Mallata alta deras Argualas).
Collata Argualas
Continuando su pietraia, segnata da evidenti ometti di pietra e nastri segnalatori a righe bianche e rosse, si procede lungo il tracciato superando un’altra serie di canaletti asciutti e di salti rocciosi, fino ad un colletto, la
Collata Pondiellos. Prima di giungere al colletto, deviando leggermente a sinistra, si prosegue lungo la base del Garmo per risalire fino al colletto Argualas.

Giunti sul colle (collata Argualas), a 2680 m. di quota, si accede ad un piccolo circo glaciale, morenico e detritico, e, proseguendo a destra in direzione Nord, si ascende con facilità con un lungo traverso, nonostante le sue condizioni a tratti sabbiose, fino in cima al Garmo.

In vetta, una lunga cima priva di qualsiasi riferimento, ma con una scritta su roccia: “Garmo Negro 3065 m”.

Totale m. di dislivello 1436, tempo di salita circa 3 h e 40 min., classificazione EE. Si tratta di un 3000 non difficile ma duro, con circa 1500 m. di dislivello da compiere in poco più di 5 km: una pendenza media del 24%. Dentro questi pochi chilometri, un po’ di tutto: pinete, pratoni, rocciosi canalini, pietraie, dure scarpinate su tracce terrose e calcaree e, soprattutto, panorami mozzafiato. Dalla cima lo sguardo può ora spaziare dalla lunga cresta bianca, marmorea, dei Picos de los Infiernos, al di là degli azzurri laghi glaciali di Pondiellos, al Pico Argualas, dal Pico Algas all’Arnales, dalle punte della Sierra Tendeñera fino agli alti 3000 che impreziosiscono questo grande Parc National des Pyrenées Occidentales.

domenica 29 agosto 2021

Il pirenaico Anayet

Inons d'Anayet
Sui Pirenei atlantici c’è un passo che collega le valli di Tena (sui Pirenei aragonesi di Spagna) e di Ossau (su quelli francesi), meta di ciclisti, centauri e camperisti d’alta quota. È la frontera del Portalet, a 1795 metri di quota. Lassù, incastonato tra le spettacolari vette del Parc National des Pyrenées Occidentales, isolato come un gendarme impettito, vigila l’Anayet, una punta non molto alta (2574 m.) ma assai nota ai frequentatori della valle e particolarmente iconica, per metà rossa e metà scura come la roccia. Mèta frequentatissima, l’Ibons d’Anayet, i bellissimi laghetti che impreziosiscono i pratoni ai suoi piedi.

Cuello d'Anayet
Partiti il 26 agosto di questo 2021 dal km 23 della strada che da Sallent de Gállego conduce al Colle, da una località conosciuta come corral deras Mulas, abbiamo risalito l’asfaltata che conduce agli impianti sciistici e, da qui, proseguito lungo l’ampio sentiero che risale il barranco Anayet, il GR 11, fino al grande laghetto tra il vertice dell’Anayet e la Punta Espelunziecha. Ad ogni passo si viene rapiti dalla mole del gran dominatore panoramico di queste valli, il Pic du Midi d’Ossau, dalle forme dolomitiche e dai netti profili delle sue tre punte, tutte alpinistiche. Guardandolo dal lago parrebbe di vedere la testa di un enorme pesce che esce dalla terra con la bocca spalancata.

L'Anayet visto dal Garmo
Superato il lago popolato da cavalli, vacche e balneari, continuiamo a risalire il comodo sentiero che conduce al cuello d’Anayet, e da qui, a destra per comoda cresta rossa come un campo da tennis e con l’ausilio di qualche metro di catena, al Pico.

Ridiscesi al colle abbiamo poi risalito la seconda punta della montagna, detta appunto Vertice de Anayet o Garmo, di qualche metro più bassa (2555) ma impreziosita da una colonnina di cemento a segnarne il vertice. Da lassù lo spettacolo delle vette dei Pirenei atlantici è superbo, dal Pic du Midi ai 3000 sopra Panticosa, dalle punte della Sierra Tendenera a quelle della Sierra dera Partacura: splendide montagne simili alle Alpi, dai colori vivi, terrosi, e dalle forme imponenti, fiabesche, un mondo magico di vento e silenzi.


venerdì 13 agosto 2021

Cima di Pienasea (3117) e Cima del Lupo (3132)

Verso la grange dell'Antolina
Se volete andare in fuga dall'afa, come probabilmente vorrebbero fare in questo agosto 2021 - il più caldo mai visto - tutti coloro che vivono "nella bassa", potete sempre risalire una delle valli alpine più belle in assoluto, la Val Varaita, e portarvi a Chianale, più precisamente oltre il paese, dove un ponticello taglia il torrente e conduce, dopo 300 m. di asfaltato, in un parcheggio a ridosso di un secondo piccolo ponticello (1860 circa). Lì, lasciata l'auto a cuocere sotto il sole, dovete imboccare il largo sentiero a sinistra che risale un bellissimo lariceto e conduce con qualche tornante entro la val Antolina: è il sentiero U20-21 (segnavia di vernice rosso-bianca) per il Lago Blu ed il Col Longet. Se la giornata è bella, passato il bosco, comincerete presto a rimpiangerne l'ombra. Usciti su un'aperta radura, si cammina sotto l'imponente mole delle ripide pareti Nord del Tour Real. Ora si comincia a prendere quota più rapidamente. Al termine di un lungo traverso, si arriverà alla grange dell'Antolina (2298).

Lago Bes
Si continua dunque a camminare su un secondo lungo traverso in direzione Sud per affrontare una seconda serie di svolte che conducono all'interno di un dolce valloncello, immancabilmente solcato dal suo bravo corso d'acqua - come tutti i valloncelli qui - proveniente da uno dei laghi più in alto (se ne conteranno lungo il tragitto almeno quattro). Risalendo l'intero valloncello, moderatamente ripido, si sbuca nella verdissima conca del Lago Blu.

Qui, una serie di paline segnalano a sinistra un paio di sentieri diretti al Lago Nero: devono essere tutti ignorati per poter tirare dritto per il Lago Blu. Giunti nei pressi del super-cromatico lago, occorre svoltare a destra, superare il suo emissario su un paio di blocchi di roccia e giungere ad un'ennesima palina indicatrice. A sinistra, occorre seguire le indicazioni per i Laghi Bes e per il Col Longet.

Il Bivacco Enrico Olivero
Il percorso, sempre ben visibile e mai brusco, conduce al superiore ampio pianoro dei Laghi Bes. Qui, poco prima di giungere al Col Longet, si incontra un'indicazione che segnala la giusta direzione per il Colle Lupo. Dopo qualche minuto di sali-scendi, si giunge al nuovissimo e sontuoso Bivacco (2647) inaugurato nel 2018 e dedicato ad Enrico Olivero, noto impresario di Sampeyre scomparso nel 2014.

Se il proposito resta ancora quello di raggiungere le cime, allora non si dovrà fare altro che oltrepassare il bivacco e seguire fedelmente le tacche bianco-rosse (e ometti) che permettono di orientarsi all'interno del vallone del Lupo. Qui si viene subito accolti da un ambiente incontaminato, selvaggio ed incantato, dove dominano i colori della pietra lavorata dai ghiacci. Occorre risalire l'intero vallone in modo dolce fino alla sua parte sommitale, più pietrosa e ricoperta di detritici sfasciumi, mai comunque pericolosi. A fine luglio si potrà ancora sfruttare gli ultimi residui nevosi. A questo punto si possono già ammirare le due ambite cime, a sinistra la Pienasea, più a destra il Lupo.

Colle del Lupo
Giunti sul Colle del Lupo (3052), ci si può finalmente sedere presso l'uscio di ciò che resta della casermetta militare "Courero", in larga parte diruta, posta a custodia del passo. Qui, di sicuro, si avrà modo di incontrare i suoi assidui frequentatori: gli stambecchi.

Dal Colle si può decidere tranquillamente quale cima risalire per prima: è il bello della libertà di scelta. A sinistra, per chi arriva dal vallone, la Pienasea (3117), raggiungibile per cresta in pochi minuti, con la sua metallica croce ed il suo bel libro di vetta. A destra, oltre il tetto crollato della casermetta, la Cima del Lupo (3132), rocciosa e raggiungibile per cresta con passi di I° su rocce e su placche inclinate che esigono piede fermo.

La Pienasea ed il Monviso visti dal Lupo
Dalle cime, è consigliabile ammirare in silenzio per svariati minuti la bellezza e la varietà di punte, tutte sopra i 3000, di queste benedette Alpi Cozie: il Monviso, i Monti Salza e Mongioia, le Rochers de Rubren, e poi il Pic d'Asti, il Pierre Menue, e oltre l'Uja di Ciamarella, la Grande Casse, lo Chaberton, il Thabor, il Pic de Rochebrune...

Per scendere si avranno due possibilità (è di nuovo il bello della libertà di scelta): o ritornare per la stessa via di salita, o tenersi sotto il Colle del Lupo più sulla destra e ridiscendere per il Vallone di Pienasea, fino al Lago Blu. Il resto sarà fondamentalmente un lavoro di ginocchia.

martedì 10 agosto 2021

Esja, la "Regina" di Reykjavik

Esjustofa
In Islanda, a circa 10 km a nord di Reykjavik, c'è una regina, o almeno così la intendono gli abitanti della capitale. Si tratta di una montagna vulcanica che domina la vista di coloro che, dalle grandi finestre di casa, ne scorgono d'inverno la scura mole e ne apprezzano le forme durante le giornate più belle. L'Esjan - o semplicemente Esja - tocca, nel punto più alto della sua piatta cima, i 914 m. di altezza, ma considerando che la quota di partenza è di qualche metro sopra il livello del mare, è comunque in grado di offrire all'escursionista una discreta quantità di paesaggi, di emozioni e, diciamolo pure, di soddisfazioni.

L'8 agosto 2021, dopo una giornata trascorsa sul Fagradalsfjall Volcano, attivo dal 19 marzo, decidiamo di salire su quel privilegiato pulpito che consente uno sguardo d'insieme unico sulla baia di Reykjavik e sui massici più settentrionali, fino alle vette della penisola chiamata Snaefellsnes.

Verða

Parcheggiata l'auto nelle piazzole dell'Esjustofa, in località Mógilsá (casetta scura che fa da rifugio, punto di ristoro e centro visitatori a pochi metri dalla "Ring Road"), imbocchiamo immediatamente il sentiero decisamente turistico che, attraversata una prima fascia di lussureggiante vegetazione (parliamo comunque di piante non più alte di 2 metri), conduce all'interno di un valloncello solcato da un vivace torrente. In pochi minuti si giunge su campo più aperto, su un ampio anfiteatro formato dalle stesse pareti del monte e solcato fondamentalmente da due valloni che conducono entrambi ai piedi delle pendici rocciose del lungo massiccio, pareti che si ergono come scogliere di mare e che lasciano intravedere fin da subito i bordi della parte sommitale. Si giunge così ad un bivio, il Brú, punto di partenza e di arrivo di una prima possibile escursione ad anello.

Panorama sulla baia di Reykjavik
Da qui, imboccando l'ampia pista terrosa di sinistra, si risalgono alcuni pratoni fino ad arrivare ad un panoramico punto chiamato Steinn, il punto più alto raggiunto normalmente dalla maggioranza degli escursionisti.

Il sentiero ora procede, sempre evidente, arrampicandosi su roccette, in modo alquanto diretto, anche con l'ausilio di catene disposte in loco, fino al bordo della cima del massiccio, dove un primo ometto di pietre accoglie l'escursionista giunto fin lì con tanto di rosa dei venti e libro di vetta. È il Verða, il punto considerato idealmente la vetta del monte, a 840 m. slm. In realtà, da questa cima ideale, tutta la chilometrica sommità dell'altipiano è contrassegnata da una serie di ometti, come a formare un'ideale staffetta di punti che consentono di spostarsi più agevolmente lungo la piattaforma di roccia vulcanica. Volgendo a sinistra, con una passeggiata di poco più di un chilometro, è possibile raggiungere un apice leggermente più alto che conduce a quota 900, il luogo ideale per poter spaziare con lo sguardo sui retrostanti valloni che si gettano nell'Hvalfjörður.

Il versante sull'Hvalfjörður