martedì 30 giugno 2015

"Questa missione è possibile: scalare il Cervino, passo dopo passo"

Bell'articolo di Enrico Martinet apparso il 28 giugno su "La Stampa" in occasione delle celebrazioni per i 150 anni della conquista del Cervino. Lo riportiamo integralmente.

Sei come su un filo a 4 mila metri e ne hai mille sotto di te, a destra e a sinistra. Cammini sopra un abisso, tra rocce rossastre e dorsi di neve.
«Come un funambolo con lo sguardo nel blu. E poi arriva il sole. L’aurora, la luce bianca, improvvisa. Mi basta questo sole che non può far ombre, perché intorno a me c’è soltanto il vuoto per potermi spingere ancora su questa nostra montagna». Parla Marco Barmasse, guida alpina di 65 anni, figlio e nipote di guide, padre di un’altra, Hervé, che è oggi fra gli alpinisti professionisti più forti. E Marco parla del «suo» Cervino e del momento più bello nell’arrampicata della Cresta del Leone, la via normale sul versante del Sole, quello italiano.

Dice ancora: «E’ lì la meraviglia, ogni volta si ripete. Lì sull’Arête du coq, dove non ci sono difficoltà tecniche e se si è in due si può procedere in conserva, cioè camminando entrambi. Andare incontro al sole dopo aver lasciato le grandi ombre e l’albeggiare di quando si lascia la capanna Carrel». Quel Carrel, Jean-Antoine, detto «il bersagliere», perché con la divisa dell’elmetto con le penne partecipò a due guerre d’indipendenza. Fu lui a salire per primo quella che ancora oggi è la via normale alla montagna. Normale, ma complicata, difficile rispetto a quella che seguì il suo amico rivale, l’inglese Edward Whymper sulla cresta della Hornli, versante svizzero.

In vetta
Marco Barmasse non ricorda neppure quante volte è salito in vetta alla Gran Becca, accanto alla croce dove Mike Bongiorno reclamizzava una grappa nei Caroselli della Rai. Ma il Cervino, e quella sua cresta Sud-Ovest, del Leone, ha un potere seduttivo che attira alpinisti e appassionati da tutto il mondo. Ogni passo ha un nome. E non sono denominazioni che indicano superbia o smisurato orgoglio umano. Ne indicano la storia. Il Cervino è come un libro di alpinismo da sfogliare.
Dice il presidente delle guide, Gérard Ottavio: «Il Cervino mi emoziona sempre. Ha una sacralità proprio per la storia che ha. È un insieme di episodi, aneddoti che s’incrociano con l’epopea dell’alpinismo. Anche per questo, oltre che per la sua bellezza, è fra le mete più ambite». Dalla «Cheminée» in su, grande diedro sprofondato nel caldo dell’estate di febbre del 2003, è un inseguirsi di passaggi obbligati dalla storia del «Bersagliere». E dagli altri grandi esploratori-alpinisti. Ottavio ricorda il «Rocher de l’écriture», dove su una placca di gneiss rossastro Whymper, lo stesso Carrel e Luc Meynet scolpirono i loro nomi con la punta della picca.

L’anno dell’Unità
Sono lì dall’anno che cambiò la storia d’Italia, 1861, l’unità e la volontà di virare in gloria patria, se non in politica, la «conquista del Cervino». Ciò che fecero Carrel e i suoi compagni nel 1865 - concludere la salita della Cresta del Leone - segnò per sempre l’alpinismo. «Nessun abitante delle valli prima di allora - ha ricordato Hervé Barmasse venerdì al festival LetterAltura di Verbania - era riuscito prima di allora a raggiungere una vetta così importante senza clienti, senza la spinta del guadagno».
Una «corsa» cominciata a metà degli Anni 50 dell’Ottocento, l’ossessione di Jean-Antoine Carrel. Oggi quella sua cresta è addomesticata da corde fisse e scale. «Ma salire sul Cervino - dice Gérard Ottavio - resta sempre impegnativo. E la discesa è lunga quanto la salita».

Fascino perenne
Ecco la grande montagna, quella che offre fascino e non lascia tregua. Nonostante ci siano gli aiuti, quelle corde che hanno nomi evocativi, dalla «Sveglia» alla «Jordan». O quel «Vallon des glaçons», che indica piccole stalattiti di ghiaccio che si formano lungo la corda al cambio repentino della temperatura. Ottavio: «Ci sono molti clienti che soggiornano a Zermatt e vengono a fare la traversata, le due creste della storia».
E le altre vie puoi percepirle, fino a scoprire il mistero della grandiosa parete Ovest, un chilometro e mezzo quasi sempre all’ombra. E quando sei lassù, sul Pic Tyndall, una sorta di grande anticima e sull’«Arête du coq», ne avverti la voce: vien fuori improvvisa, aprendo sotto di te un’eco sospesa come un attimo senza tempo.

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