giovedì 22 novembre 2012

Vojtek Kurtyka

Vojtek Kurtyka, tra gli alpinisti himalayani, è una leggenda.

Vojtek Kurtyka
Nato a Skrzynka, in Polonia, il 20 settembre del 1947, figlio di uno scrittore, a dieci anni si trasferisce a Breslavia, una cittadina devastata dalla guerra. Qui comincia a soffrire una forma di depressione infantile, con incubi ricorrenti. Dopo il diploma, studia ingegneria elettrotecnica ma senza grande entusiasmo. A Breslavia, tuttavia, viene in contatto con il mondo dell'alpinismo. Nell'arrampicata mostra immediatamente movenze sinuose ed una naturale predisposizione alla roccia che gli vale il titolo di "animale da parete". "Quando poggiai le mani sulla roccia - ebbe modo di raccontare - le dita cominciarono a contrarsi da sole, io dovetti solo assecondarle, e in un attimo mi ritrovai a salire la parete". Si rende subito conto di quanto l'arrampicata possa divenire una sorta di droga. Termina l'università e abbandona Breslavia. Lavora un breve periodo come riparatore di televisori. In seguito viene assunto come ingegnere presso un'acciaieria ma trova il lavoro altamente noioso. Scopre una attività più interessante, il commercio di cibo e attrezzatura per le spedizioni in Asia degli alpinisti nazionali ed esteri. Inizia a scalare sulle Alpi e nei monti Tatra come uno scavezzacollo. Ama soprattutto le ascensioni invernali su vie nuove e sempre più impegnative.
Nel 1972 vive la sua prima esperienza himalayana in Afghanistan, con una spedizione nel cuore dell'Hindu Kush, e affronta i due colossi, l'Acher Chioch ed il Koh-e-Tez, in pieno stile alpino, senza cioè campi riforniti, senza corde fisse e senza bombole d'ossigeno. Nel 1973, insieme con colui che diventerà il più grande alpinista polacco, Jerzy Kukuczka detto "Jurek", apre una nuova via sulla Nord del Petit Dru.
Nel 1974 partecipa alla spedizione invernale organizzata dall'allora mitico Andrzej Zawada sul Lhotse. Con Zawada, comincia a comprendere di non essere fatto per le spedizioni in grande stile, quelle delle grandi imprese nazionali. Tale convinzione si rafforza nel 1975 quando partecipa ad una spedizione sul K2 organizzata da Janusz Kurczab.
Nel 1976 tenta, senza successo, la cresta nord-est del K2 e, l'anno seguente, torna in Afghanistan, questa volta con l'inglese Alex MacIntyre e l'anglo-americano John Porter, per la conquista della parete nord-est del Koh-e-Bandaka (6868 m.). Vojtek, Alex e John salgono gli oltre 2000 metri - roccia instabile e seracchi vacillanti, con continue scariche di pietre e terreno strapiombante - e gli ultimi 700 metri di nevaio - un labirinto di seracchi e crepacci -, con sei giorni in parete e una media di 12 lunghezze al giorno. L'impresa viene subito considerata una delle vie più impressionanti dell'Himalaya.
Nel 1978 sale il Changabang (6864 m.), nella regione indiana del Garhwal, una perfetta piramide di granito e ghiaccio, e apre una nuova via sul versante sud con MacIntyre e Porter: i tre superano i 1700 metri di parete con otto notti trascorse su un'amaca sospesa nel vuoto o su cengie scavate nel ghiaccio, passaggi da brivido e un discreto numero di cadute di oltre venti metri. Sul Changabang Vojtek trova la sua strada ed inizia un alpinismo di piccoli team, flessibile, creativo ed indipendente, un alpinismo capace di inseguire l'eleganza di un'arcata rocciosa, la precisione geometrica dei blocchi di granito e ghiaccio, la tecnica delle linee strapiombanti.
In quegli anni, si dimostra un alpinista pragmatico, capace di pianificare ogni singolo dettaglio e di concentrarsi su un obiettivo specifico piuttosto di raggiungere la vetta ad ogni costo e con ogni azzardo necessario (cosa che gli creerà dolorose divergenze con il grande Jurek Kukuczka).
Nel 1980 sale in stile alpino il Dhaulagiri (8167 m.) con l'amico Alex MacIntyre, Ludwik Wikzynski e René Chilini. L'anno seguente, aggregatosi ad una spedizione organizzata dalla scalatrice polacca Wanda Rutkiewicz per il Broad Peak, apre una nuova via sull'inviolata parete ovest del Makalu (8485 m.) insieme a Jurek, pur non avendo nessun permesso dalle autorità locali. In quell'anno trascorso presso il Makalu, comincia ad elaborare insieme a MacIntyre un'impresa folle, la traversata del Gasherbrum I e II, nel Karakorum, ma, una settimana prima di incontrarsi per l'elaborazione tecnico di quel progetto, Alex muore sull'Annapurna. Seppur sconvolto, Vojtek decide di provarci con Jurek. È l'inizio di una "cordata magica", come la chiamò Krzysztof Wielicki, dove Voytek formava la mente e Jurek la forza di volontà. In Himalaya, Vojtek diviene "l'alpinista saggio". Prima di parlare riflette sempre e soppesa le parole; è un uomo silenzioso, con un viso magro ed un fisico asciutto; da sotto i suoi occhiali scuri, sempre sul naso, Vojtek osserva ogni cosa: eventi, sentimenti, emozioni, espressioni, sfumature. Nelle pause legge molto e ascolta musica jazz.
Con Jurek, per tre anni , domina la scena dell'alpinismo himalayano. I due perfezionano l'arte del commercio internazionale e divengono esperti nel contrabbandare in Asia materiale prodotto in Polonia ed in Russia in cambio di valuta esterna e ritornare poi in patria con prodotti da rivendere ad acquirenti locali. Riescono così in questo modo a finanziare i loro viaggi in giro per il mondo. Il 20 luglio 1983, i due si mettono in marcia alle 3 del mattino per la loro traversata del Gasherbrum II (8034 m.) e I (8080 m.). Attraversano un insidiosissimo catino di neve, marciano per due giorni, si bloccano sotto un muro strapiombante in cui, addirittura, Vojtek perde un rampone. Il mattino seguente decidono di proseguire e raggiungono la cresta sud e affrontano una sezione ancora più tecnica e impegnativa. A causa della carenza d'ossigeno Vojtek comincia ad avere allucinazioni. Stringono i denti e giungono in vetta alle 19 e 30. Affrontano una discesa fulminea e tengono nascosta la cosa in quanto privi dei necessari permessi locali. L'anno seguente tornano in Pakistan, questa volta, per il traverso delle tre cime del Broad Peak, un'altra folle corsa. Si aggregano alla spedizione polacca di Janusz Majer, ben contento di avere in squadra due stelle come loro ed un fuoriclasse come Krzysztof Wielicki, famoso per la sua ascensione invernale sull'Everest. Al campo base trovano altre tre celebrità: l'austriaco Kurt Diemberger, l'inglese Julie Tullis e Reinhold Messner. Il piano di Vojtek è quello di salire lungo la parete settentrionale del Broad Peak Nord (7490 m.), continuare lungo la cresta fino al Broad Peak Centrale (8011 m.), proseguire sulla cima Principale (8051 m.) e discendere lungo la parete ovest. sapendo che Wielicki non si sarebbe mai accontentato della normale del Broad Peak, Vojtek gli suggerisce un piano folle, un'ascensione in solitaria di un giorno, tutta in continuità. Così, nel giorni tra il 13 ed il 17 luglio del 1984, questi tre uomini, riscrissero completamente le regole dell'alpinismo himalayano. Vojtek parte con Jurek per la traversata integrale del colosso himalayano. Salgono come previsto non senza pericolo e con tempo incerto, affrontano la sinuosa cresta di 10 km., interminabile e costantemente spazzata da indiavolate raffiche di vento, raggiungono la vetta principale e ridiscendono per la normale. Su quella cresta Vojtek affermerà di aver toccato una profondità spirituale mai prima avvertita e, in discesa, rischia spaventosamente la vita scivolando per diversi metri lungo un pendio ghiacciato agganciandosi con la becca della picozza poco prima di un salto nel vuoto. Nel frattempo, Krzysztof Wielicki sale il Broad Peak Principale in 22 ore e 10 minuti e compie la più rapida ascensione nella storia degli 8000 e la prima in giornata. Poco dopo la mezzanotte del giorno 14 luglio 1984, infatti, Krzysztof infila nello zaino un secondo maglione di lana, una giacca a vento, un telone di plastica, due chiodi, una vite da ghiaccio, una macchina fotografica, alcuni rullini, una torcia frontale, una batteria di ricambio, un po' di cibo e due litri di succo d'arancia ed esce dalla tenda, per aggiustarsi la pila frontale, stringere i ramponi, indossare due muffole sopra i guanti, afferrare due picozze e mettersi in marcia. Quella notte Krzysztof si trasformò in una macchina, in uno strumento ad alta precisione ed arrivò in vetta alle 16. Nessuno avrebbe potuto stargli dietro. Arrivò al campo base alle 22.30: oltre 3000 metri di dislivello, a quelle quote, in meno di 24 ore. In tenda cominciò ad essere scosso dai tremiti di adrenalina. Tutto era come 22 ore prima: Krzysztof, salendo così rapidamente, aveva ingannato il proprio corpo per qualche ora, non gli aveva permesso di rendersi conto della rarefazione dell'ossigeno ma aveva anche rischiato tantissimo: sarebbe bastato un piccolissimo contrattempo e gli effetti sul suo organismo sarebbero stati mortali.
Vojtek e Jurek sul Manaslu nel 1986
Questa traversata è l'ultima grande impresa della magica cordata. Da quel momento, Jurek comincia la sua competizione con Messner per i 14 ottomila, seppur salendo sempre su vie nuove ed in invernale. Vojtek, invece, comincia a pensare alla parete ovest del Gasherbrum IV, un muro immenso ed impossibile.
Per Vojtek la competitività era qualcosa di deplorevole. Sostenne che se un individuo si sente costretto di dimostrate di essere il più forte, allora aveva già perso in partenza come uomo. Trovava che l'eccessivo agonismo, nell'approccio alpinistico, portasse naturalmente all'angoscia emotiva e che l'individualismo e l'ambizione conducessero inevitabilmente alla sofferenza. Per Vojtek, l'alpinismo avrebbe invece dovuto aiutare a sfuggire la morsa del proprio ego. Vojtek vedeva nel collezionismo di vette un comportamento profano e materialista, un bisogno insano di possedere la montagna invece di lasciarsi conquistare da essa e dal suo insondabile mistero.
Dopo l'impresa sul Broad Peak, Vojtek viene considerato dall'ambiente alpinistico polacco "un uomo che con le sue imprese in Himalaya ha creato una certa aurea di misticismo attorno alla montagna" (Leszak Cichy, suo compagno dell'Everest). Molti gli riconoscono un'intelligenza sopra la media, altri lo considerano un enigma, capace dell'impossibile ma sempre evitando il pericolo. Messner lo definisce un alpinista "acuto, sensibile e umano". È certamente un uomo capace di elaborare un volume enorme di informazioni e di idee, intellettualmente, emotivamente e fisicamente. Torna da ogni spedizione trasformato, sempre più recettivo nei confronti della bellezza della vita e del mondo attorno a lui. Ciò gli consentirà, a differenza di tantissimi suoi colleghi, di accettarne anche gli aspetti negativi: la vecchiaia, la perdita della forma fisica, la malattia.
Vojtek non è un uomo religioso ma un uomo che attraverso l'alpinismo cerca di guardarsi dentro per trovare una risposta alle domande più elementari: chi sono, cosa cerco, dove sto andando. Tutto ciò lo racconterà nel 1988 in un articolo dal titolo La Via della Montagna in cui descrive alcune sue fonti di ispirazione: il Cristo sofferente dell'opera pop Jesus Christ Superstar, la buddista Via di Mezzo e, soprattutto, la Via della Spada dei samurai giapponesi. Per Vojtek, infatti, la Via della Spada e l'alpinismo rappresenteranno sempre due discipline che hanno in comune "il costante confrontarsi con la morte, la virtù del coraggio, la tensione verso la perfezione di corpo e mente, l'importanza di tecnica e stile, il senso dell'onore". Attraverso un codice di norme etiche ed un sistema di aspetti pratici - quali la meditazione, la dieta, la riflessione o la respirazione - Vojtek cercò una certa illuminazione interiore, una crescita spirituale, un livello più alto di consapevolezza capace di comprendere perfino i momenti di ansia, di sfinimento, di disperazione, di fame e di sete come istanti preziosi, in grado di condurre successivamente alla calma, alla serenità, al senso di pace. In tutto questo, naturalmente, lo scenario grandioso della montagna vi giocava un ruolo fondamentale: "Quella immensa forza reclama il diritto di possedere un respiro primordiale. Vivere la montagna tocca le corde più profonde del nostro essere".
Così, nel 1985, Vojtek parte per la parete ovest del Gasherbrum IV (7925 m.), la "Parete Lucente": un muro di 2500 metri incredibilmente elegante, un triangolo perfetto di roccia e ghiaccio che non offre accessi facili. Inizia a scalare con l'austriaco Robert Schauer. Dopo sei giorni di difficoltà estreme, insidiosi passaggi di misto e gelidi bivacchi affacciati sul vuoto, raggiungono gli ultimi pendii innevati. ma durante la notte si scatena una bufera di neve che li inchioda a 7800 metri, con scorte di cibo e gas agli sgoccioli. Da quel punto non avrebbero mai potuto scendere. Attendono la fine della bufera tra ipossia, disidratazione e stati discontinui di semi-delirio e allucinazioni. Si convincono di essere in tre. Le slavine continuano a sfiorarli. Sono affamati e assetati. Non dormono per diversi giorni. Al nono giorno dalla partenza si svegliano con il sole, escono dai sacchi a pelo e cominciano ad aprirsi un varco nella neve alta fino alla cintura. Raggiungono finalmente la cresta nel tardo pomeriggio e, seppur esausti ed in preda alle allucinazioni, fissano un ancoraggio e cominciano a calarsi lungo l'inviolata cresta nord-ovest. Ogni passo diviene un sforzo sovraumano. Con le cosce ormai in fiamme, coprendosi gli occhi dal riverbero accecante, barcollando nella neve, si trascinano fino al campo base e, dopo undici giorni in parete, crollano nelle tende.
Nonostante l'iniziale frustrazione per la mancata conquista del colosso, Vojtek affronta la sconfitta con serena rassegnazione, fino a provarne gratitudine: "A volte queste avventure mancano l'obiettivo finale; ciò dimostra la debolezza umana, e le rende per questo ancora più belle". Comincia a rendersi conto che il fallimento a volte può portare anche benefici nel lungo periodo e che la linea della vita traccia a volte molte curve, alcune delle quali verso il basso. Debolezza, malattia, perdita, vecchiaia: se affrontate con umiltà, ogni sconfitta può prepararci a questi inevitabili duri colpi della vita. Comincia a raccontare la consapevolezza della morte offertogli da quella odissea come un dono, il dono di una calma ed una serenità sorprendente davanti alla morte, ma anche il dono di una nuova percezione del rischio e di una prudenza che non l'avrebbe più abbandonato per il resto della sua carriera.
L'intera comunità alpinistica internazionale battezzò la loro avventura come "l'impresa del secolo". Per Messner fu "un'impresa superlativa". Cominciò a diffondersi tra gli alpinisti l'ispirazione di un nuovo approccio alla montagna, un approccio secondo il quale raggiungere la vetta non era poi così tanto importante quanto l'originalità degli obiettivi e lo stile impiegato. Vojtek interpretò questo riconoscimento come il sigillo ad un'opera completa, un segno che l'alpinismo, più che uno sport, stava ormai divenendo un'arte.
Di ritorno alla vita quotidiana, tuttavia, Vojtek si ritrova presto ad affrontare un doloroso divorzio dalla moglie. Come spiegò bene Krzysztof, "se vuoi scalare, c'è un prezzo da pagare. Di solito è la famiglia, cui ogni volta devo ripetere all'infinito che mi dispiace. E finisce così, che loro soffrono a casa mentre noi soffriamo in parete".
Nel 1986, in una spedizione sull'inviolata parete nord-est del Manaslu con Jurek, Artur Hajzer ed il messicano Carlos Carsolio, Vojtek decide di abbandonare l'impresa a causa dell'alto rischio dovuto alle tonnellate di neve fresca caduta sul gigante himalayano. Così, Jurez e Artur arrivano in cima senza di lui.
Tra il 1987 ed il 1992 Vojtek continua a cercare linee sempre più futuristiche sui giganti dell'Himalaya e non. Dopo diversi tentativi effettuati sulla parete ovest del K2, altra sua ossessione, si sposta nel 1988 sul Trango Tower (6238 m.), in Pakistan, dove apre con lo svizzero Erhard Loretan una difficilissima via sui 1000 metri della parete est. Due anni più tardi, con Loretan e con un altro svizzero di nome Jean Troillet, sale la vetta di Cho Oyu (8201 m.) e, sei giorni dopo, il Shishapangma (8008 m.). Vi salirà con una tecnica che viene definita scherzosamente "la nuda in notturna": una salita notturna in perfetto stile alpino, senza tenda, senza fornelli e quasi senza cibo, in un'unica progressione continua, con partenza al tramonto, arrivo in vetta alle prime ore del mattino e subito discesa. Questa incredibile impresa rappresenta per Vojtek l'addio ai grandi 8000, un addio di grandissima classe, con due 8000 e l'ennesimo inedito standard di alpinismo himalayano. Sulla vetta Vojtek scrisse: "Dopo aver terminato un'impresa del genere vivi una sorta di catarsi interiore che ti trasforma in un essere vivente semplicemente felice".

Vojtek fu colui che spinse il concetto di arrampicata in stile leggero ad un livello completamente nuovo e, soprattutto, riuscì a sopravvivere. Il suo concetto di sicurezza in montagna fu impeccabile. In trent'anni di carriera ebbe la capacità di fare più volte un passo indietro e riuscì ad evitare accuratamente incidenti e sciagure. Mai nessuno perse la vita attaccato alla sua corda. Non aveva paura della morte ma non aveva paura neanche di abbandonare una scalata o scendere da una montagna se lo riteneva opportuno. La sua carriera fu costellata incredibili successi e di ingloriose ritirate strategiche. In parete ebbe un approccio mistico senza perdere mai di vista il campanello d'allarme della paura. Secondo il figlio Aleksander, Vojtek attribuì la longevità del suo alpinismo alla propria codardia, definendosi "il più grande fifone del mondo"; sapeva ammettere senza problemi la propria paura per una via od il fallimento di un'impresa.
In realtà, Vojtek fu un rocciatore, un filosofo ed un visionario, che scelse solo vie pure e senza compromessi. Su alcune di esse tornò vittorioso e su altre sconfitto ma, in tutti i casi, le sue linee rimasero ispiratrici. Fu un alpinista himalayano che non si lasciò risucchiare dal vortice della competizione degli ottomila ma si dedicò alle pareti più inospitali, tecniche e ghiacciate del circo himalayano ed alle massacranti traversate in quota, senza corde fisse, senza colossali spedizioni, in totale flessibilità.
In altre parole, Vojtek Kurtyka fu l'uomo delle linee più estetiche, più impegnative, più futuristiche del pianeta himalayano.

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