![]() |
Le Grand Lac des Estaris visto dal Colle |
![]() |
Anticima e cima del Roc Diolon |
![]() |
Lac des Sirenes |
![]() |
Le Grand Lac des Estaris visto dal Colle |
![]() |
Anticima e cima del Roc Diolon |
![]() |
Lac des Sirenes |
![]() |
La Vallée de Cervières dal Colle Malrif |
In paese, l'11 agosto 2025, si attendono i 38 gradi previsti dal meteo. E così, meglio salire di quota. In 34 minuti, superato il villaggio di Cervières, si arriva al Rifugio Le Fonts (2040 m), che alle 8 di mattina già pullula di vita. Lasciata l'auto nei pressi del rifugio, si comincia subito a salire per il sentiero (su una vecchia carta segnato come GR 58) che, attraversato il ponte, conduce al Col du Petit Malrif (4,7 km e 2h 45 sulla palina segnaletica). Il sentiero sale deciso sulla sinistra orografica del torrente, rigato e inumidito da numerosi rivoli d'acqua che lo rendono a tratti fangoso, per poi addolcirsi su un lungo e piacevole vallone erboso. Qui si cammina molto e si sale poco.
![]() |
Le Grand Laus visto dal Colle Malrif |
Il falso piano permette di godersi il panorama senza il fiato corto. Superata una grande spalla erbosa, la salita si fa più decisa. L'ultima rampa conduce al Colle ovest del Petit Malrif dal quale ci si affaccia sul versante italiano. Si prosegue a sinistra sul crestone, salendo il Pic du Malrif o baipassandolo sul lato francese fino al Colle est (2866 m), per poi proseguire sulla lunga e ampia dorsale chiamata "Eaux Pendentes". Un'ultima rampa conduce infine in cima alla Merciantaira (3293 m) dove una croce, un paio di grossi ometti di pietra ed un libro di vetta attendono gli escursionisti.
Il panoramo dalla vetta consente una visione spaziale: il Monviso, lo Chaberton, il Rochebrune, le vette della Val di Thures e le maestose cime degli Écrins. Guardando in alto può capitare anche di scorgere una coppia di gipeti pattugliare il territorio.
Per tornare al rifugio occorre ripestare lo stesso sentiero, fino a Colle est, dove una traccia permette di scendere rapidamente alla base delle pendici dei monti per poi intercettare il lungo sentiero pianeggiante all'altezza dei dossi erbosi.Alla fine ne verrà fuori uno sviluppo di oltre 16 km.
Parcheggiata l'auto (pagherete poi alla fine, comodamente, 6 euro), occorre per prima cosa raggiungere il rifugio Bellavista mediante il bel sentiero che risale la destra orografica della valle, il n. 3. Inizialmente si sale a mezza costa, nel bosco, poi si procede con rapide serpentine fin sotto le pendici della rocciosa Punta delle Frane, e si giunge così ad un pianoro leggermente detritico a quota 2400. A destra, il sentiero, davvero imperdibile, viaggia in diagonale verso il Colle Giogo Alto di Senales. Si procede spediti, in un paesaggio che diviene via via sempre più maestoso, fino ad un bivio (quota 2790) dove una palina segnala l'attacco alla via normale della Pala Bianca (Weisskugel). Ancora a destra, occorre superare una balza rocciosa, si traversa una rampa di detriti, qualche piccola pietraia, un dosso roccioso, fino a guadagnare qualcosa di caldo al rifugio di proprietà privata Bellavista (2800 e qualcosa). Qui, il 26 luglio 2025 faceva freddo, tirava vento e piovigginava, e la tentazione di infilarsi nella sauna finlandese allestita all'esterno del ricovero fu enorme. Ed è da dietro la sauna che occorre imboccare il sentiero che porta alla Vedretta.
Il sentiero, segnato da palina come 3A, subito dopo un tratto di roccette, porta ad una dorsale erbosa. Non è possibile sbagliare: grandi ed onnipresenti ometti di pietra e tacche di vernice fresca (bianche e rosse) accompagnano l'escursionista fino in cima. Con alcune serpentine si giunge così ad una vasta conca detritica, leggermente innevata, a quota 3100. Si procede sull'ampio crestone detritico, fino a giungere in vetta.
Dalla cima lo spettacolo è assicurato dal dominio dei ghiacci: dal lato della valle, i 3 chilometri di ghiacciai della Val Senales dietro la Croda delle Cornacchie, la "parete grigia"(Grawand) dove sorge l'hotel più alto d'Europa, e gli imponenti picchi e le creste frastagliate dove un giorno venne trovato Ötzi, la mummia del Similaun, il più antico sapiens di sempre (dicono vecchio di 5300 anni); alle spalle, il "ghiacciaio posteriore" (Hintereisferner) della Pala Bianca, un'impressionante lingua striata che scorre a valle per chilometri.
Per il rientro occorre preparasi mentalmente ad una discesa di 1700 metri, il solito prezzo da pagare a muscoli e ginocchia per l'esperienza vissuta.
Il Capitano Leopoldo Motti, un ingegnere con lo sguardo di chi vede oltre l'orizzonte, ne fu l'ideatore. Nel cuore gli ardeva un fuoco, la necessità di dare ai suoi uomini, alle sue salmerie, un rifugio dalla furia nemica, un passaggio sicuro anche quando l'inverno mordeva e la neve seppelliva ogni cosa. Gli Scarubbi, la strada aperta, erano un bersaglio troppo facile per gli osservatori austriaci appostati come avvoltoi sul Majo, sul Toraro, sul Seluggio. Serviva un'arteria sotterranea, nascosta, inespugnabile.
Il Tenente Ingegnere G. Zappa raccolse il testimone del progetto, un giovane dall'intelletto affilato e dalla determinazione incrollabile. E quando la fortuna lo chiamò altrove, subentrò il Capitano Corrado Picone, un uomo che in quei mesi gelidi del 1917 non solo guidò la 33ª Compagnia Minatori del 5º Reggimento Genio, ma si innamorò della montagna, della sua maestosità e della sfida che essa poneva. Ricordava spesso le sue parole, come un mantra: era il risultato di "tenace volontà, di lavoro esemplare, di sacrificio e abnegazione, di commovente spirito di emulazione".
Immagina, se puoi, quei sei cento uomini: la 349ª, la 523ª, la 621ª, la 630ª, la 765ª e la 776ª Centuria di lavoratori territoriali, oltre ai minatori del Genio. Erano fantasmi di sudore e fatica, intenti a percuotere la roccia viva con martelli pneumatici, a innescare esplosivi – gelatina, cheddite, echo, salubite, vibrite, polvere nera – in una sinfonia assordante che echeggiava tra le pareti di pietra. Le loro lampade, flebili stelle in quell'oscurità primordiale, danzavano mentre scolpivano gallerie elicoidali, come la 19ª, un ventre di 320 metri che sembrava non finire mai, o la 20ª, che si avvitava su sé stessa quattro volte all'interno di un torrione roccioso, un serpente di pietra che saliva verso il cielo.
Ogni galleria, un'anima. A quota 1200 circa, la 1ª galleria dedicata al tenente Zappa, poi la 4ª a Cesare Battisti, martire irredentista, la 12ª al Capitano Motti stesso, l'architetto di quel sogno. Erano nomi, ma anche promesse, sacrifici, ideali che risuonavano nel buio umido. E poi c'erano le sfide inattese. All'uscita della 31ª galleria, la terra traditrice della Val Camossara minacciava di inghiottire tutto. Ma la volontà umana eresse due poderosi muri di sostegno, uno a secco, l'altro di pietra squadrata e malta, un abbraccio roccioso alla montagna ferita. Dalla lontana Malga Busi, come un cordone ombelicale tecnologico, giungeva l'energia elettrica per illuminare quei passaggi e l'aria compressa per i martelli, pompata attraverso tubazioni che si snodavano come vene invisibili.
Nel dicembre di quel gelido 1917, la 33ª Compagnia, stanca ma fiera, si radunò. Le parole del Capitano Picone risuonarono come un addio commosso ai loro Caduti. Poi, con un'ultima, simbolica azione, abbatterono il muro a secco che celava l'ingresso monumentale della prima galleria, svelando al mondo la loro opera. Non sapevano che altri, il Plotone autonomo della 25ª Compagnia Minatori, avrebbero terminato i ritocchi finali, raccogliendo poi gli onori del Re d'Italia e del Re del Belgio. Il Capitano Motti quel giorno non c'era: se n'era già andato il 29 settembre salendo su una mina austriaca posizionata sul Dente Italiano, su una di quelle creste dell'acrocoro sommitale del monte che tanto lo avevano visto industriarsi.
La strada dei Scarubbi |
È un monito silenzioso, un inno all'ingegno umano e alla resilienza, un luogo dove la storia non è solo un racconto, ma un'esperienza che ti avvolge, galleria dopo galleria, fino alla vetta. E magari, all'uscita della 49ª o della 50ª galleria, aggiunte dopo, in tempi più recenti, penserai a quei Soldati Italiani o ai Cavalieri di Vittorio Veneto, che hanno camminato su queste stesse pietre, lasciando un'eredità che il tempo non può cancellare.
Il casotto dei guardiaparco |
A questo punto occorre prepararsi mentalmente a proseguire lungo la sterrata per tre lunghi chilometri e, come se non bastasse, perdere un po' di quota. In compenso, se si è fortunati, si potranno incontrare giovani marmottine - fine giugno inizi di luglio - bearsi al sole incuranti di tutto. E così, cammina e cammina... ad un certo punto, si incontra una freccia dipinta su un sasso che indica, sulla sinistra, il sentiero n. 9: qui inizia la vera ascensione. Il sentiero è ottimo, in certi tratti persino 'lastricato', e in pochi minuti si raggiunge il casotto dei guardiaparchi del Gran Paradiso.
Il vasto Pian Borgnoz
Un bivio ben segnato conduce al Pian Borgnoz (2669 m): alcune baite abbandonate (una di queste con un'architettura davvero interessante), un piccolo laghetto verde, un lungo pianoro erboso solcato da numerosi ruscelli. Al termine del pianoro, nei pressi di alcuni massi isolati, si guada il torrente e ci si porta alla base del conoide che vien giù dall'Entrelor. Questo ripido e faticolo canalone detritico va risalito tutto, di slancio, inizialmente tenedosi al centro e poi, poco a poco, guadagnando la parte sinistra, cercando il terreno più solido, fino alla base di una parete rocciosa (2950 m). Giunti al termine del conoide, si prosegue a sinistra e ci si infila in un canalone separato dal torrente da un costone roccioso. Qualche traccia e qualche ometto aiutano a non perdere il filo della salita tra gli sfasciumi ed i detriti di una montagna che sembra lentamente ed inesorabilmente sgretolarsi.
Il conoide detritico |
Il vasto anfiteatro detritico |
Per concatenate le due punte, occorre ora abbandonare la cima scendendo rapidamente per detriti fino al colletto (3390 m) posto sotto la Cima d’Aouillè. Verso sinistra, un'evidente traccia risale in diagonale la rossastra parete della montagna per poi scomparire in prossimità di alcuni facili gradoni che conducono all'ampio e camminabile crestone di Nord-Est. In pochi passi si giunge alla vetta della Cima d’Aouillè. Quassù, l'ometto di pietre è ancora più piccolo ma ha il vantaggio di essere segnalato da un tubo di ferro da idraulico.
In vetta alla Cima di Entrelor |
E quando giunge l'ora di scendere, si rifà tutto al contrario, per lo stesso itinerario di salita, ma molto più velocemente. Quei pendii di detriti ora diventano scivoli e quei rognosi sfasciumi pattini a rotelle. Ma non importa: se non si torna, il nostro non sarà un 'andar per monti', ma un vagare senza mèta.
Alla ricerca di una vetta capace di offrire un panorama pazzesco sulle cime del Rosa, il 28 agosto 2024 siamo saliti su per la Valle del Lys, fino a Gressoney-La-Trinitè, all'impianto della cabinovia di Staffal che conduce al Gabiet (2343 m). Comodo il parcheggio, comoda la cabinovia, in pochi minuti arriviamo al vecchio rifugio del Lys, oggi bar-ristorante letteralmente tappezzato di legni scolpiti e capretta domestica.
Superato di slancio il bar cominciamo a salire per lo sterratone seguendo le indicazioni per 6A e 6B, una coppia di sentieri che si sovrapporranno, si lasceranno e si ritroveranno in continuazione. Svoltiamo a sinistra, percorriamo il tratto piano che conduce ad un vecchio alpeggio - che dovrebbe chiamarsi Lavets - e, prima di giungervi, svoltiamo a destra all'altezza di un bel ponticello in pietra. Qui il sentiero comincia a risalire il valloncello solcato dal Rio Endre che conduce ai Laghi Verde e Blu, rispettivamente a quota 2609 e 2689.Dopo il primo laghetto, in realtà proseguiamo in direzione del Rifugio Horestes Huette, un ristorante vegano posto ai margini di un bellissimo pianoro, a quota 2600, oggi erboso ma probabilmente occupato in passato da uno dei numerosi laghetti della zona.
Proseguiamo seguendo i numerosi bolli gialli del sentiero 6A, quello che conduce al Rifugio Mantova. Il percorso si snoda lungo tratti di terreno erboso e tratti rocciosi, rampe e pianori, fino ad una evidente indicazione che ci segnala la svolta a sinistra per l'Alta Luce - o Hochlicht nel dialetto walser qui di Gressoney -, il percorso più diretto che passa per il Colle Salza, chiamato anche dalla gente del posto Soaelzecoll (2882 m).A questo punto non ci rimane che risalire la cresta del monte su questo lato, su terreno a volte erboso, a volte pietroso, più spesso detritico. In due ore e mezza siamo finalmente in vetta, segnalata da una graziosissima campana.
Ed è quassù che ci si spalancano gli occhi sui crepacciatissimi ghiacciai del Lys e sulle imponenti mole del Vincent e del Castore. Da lontano ci osservano i rifugi Mantova e Gnifetti.Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi 1975
Lascio l'auto a S. Anna di Valdieri, a pochi metri dalla Balma Meris (1000 m). Ed è proprio dal suo ingresso che comincia il mio cammino. La strada, da asfaltata e ripida diviene subito una comoda mulattiera, un selciato che alterna tratti piani a tratti in salita e che procede quasi interamente sotto un fitto bosco di latifoglie, soprattutto faggi. Si tratta di un'antica mulattiera di caccia e di pesca, tra le preferite del re Vittorio Emanuele II.
Al termine dei boschi, ecco il pianoro. La mulattiera sale dolcemente alla sinistra (orografica) del rio e attraversa i verdi pascoli del Gias del Prato, dove sorgono le antiche malghe di quota 1500 e 1700. La pendenza del cammino qui è modestissima. A sinistra scorgo gli orridi dirupi della Rocca Arcoulon, bui canaloni dove la neve staziona tutto l'anno. Le baite che qui attraverso erano le antiche case reali del Chiot. Intorno ai 1700 già posso intravvedere la bastionata rocciosa che chiude a valle il ripiano del Lago Sottano della Sella, da cui precipita una spettacolare cascata. Sulle rive del lago, a sinistra per chi viene dalla valle, oltre un comodo ponticello di legno, sorge il Rifugio Livio Bianco (1910 m), dominatore dall'alto dell'intero bacino lacustre.
Dopo una breve pausa al rifugio, ritornando sui miei passi e riattraversando il ponticello, proseguo lungo l'evidente mulattiera, a tratti sentiero e a tratti selciato, che risale il lato sinistro (sempre orografico del lago) in leggera salita. Dopo qualche tornante e un rapido passaggio sul bel gias di quota 2200, giungo nei pressi di un bivio: a destra si prosegue per l'imminente Lago Soprano della Sella (che tralascio), a sinistra si procede per il Colle di Valmiana. Ed è proprio quella la direzione giusta. La mulattiera compie un lungo traverso, con qualche saliscendi, e mi conduce in breve ad una sella rocciosa. Ora aggiro le pendici del monte, perdo qualche metro di quota e mi ritrovo nel mezzo di una immensa pietraia. Mi rendo subito contro che questo è il posto giusto per avvistare camosci: la loro presenza, quassù, è cosa certa. Poco prima di salire in direzione del Colle, presso una roccetta a quota 2460, un cartello segnaletico mi indica la direzione per le pietraie del Monte Matto.
Ora occorrerà solo più seguire i bolli blu e i numerosi ometti che dovrebbero accompagnare la mia interminabile progressione verso la vetta. In breve, mi ritrovo a risalire la zona dominata dai vari laghetti del Matto senza alcun punto di riferimento. Vado ad intuito ma mi ritrovo troppo a destra, sulla cresta, costantemente rotta, instabile. Risalgo addirittura un canalino con passi di II grado per poi ritrovarmi in un vicolo cieco. Solo dopo un'ora di fatica sprecata, decido di scendere più in basso, all'altezza dell'ultimo laghetto superiore. Qui, finalmente, vedo il traliccio di ferro porto sulla cima del Matto.
Dalla vetta, naturalmente, si vede tutto, ma proprio tutto: si vede lontano il Monviso, si vedono le punte più alte delle Marittime, si vede la Cima Argentera e quella di Nasta... si vede il mondo dall'alto, con tutto il suo verde vegetale ed il grigio della pietra, si vede il cielo con le sue bianche e leggere striature fatte di vento e di vapore.
Raggiungo in auto la località chiamata "la Palà" (1632 m)con sterratone fatto di continui buchi e dossi per incanalare l'acqua. Dopo aver parcheggiato nell'unica piazzola disponibile, guadagno un po' di metri su pratoni, per poter poi intercettare la traccia che corre a mezza costa tra le creste del monti a destra ed il Pian Frollero a sinistra. Percorrendo l'unica traccia visibile sui pratoni giungo ad una sella detta "la Sceglia" (2179 m).
Da qui, percorro la cresta fino a toccare la cima del Monte Maciarone (2419 m) e giungere alla base della piramide rocciosa del Frioland. Per evitare di affrontare di petto le pendici scoscese del Frioland, una traccia, a sinistra, mi porta sotto le barricate della cima per poi permettermi di raggiungere, dopo alcuni sali-scendi, la cresta che sale dal Colle delle Porte, una cresta ampia e panoramica che intercetto a quota 2500 circa. Da qui, su facile sentiero, salgo fino in cima (2738 m) dove mi attende una enorme croce di ferro nero con tanto di volto di Cristo coronato di spine.
Neanche a dirlo, la discesa si rivela un Calvario, con piedi sempre storti su tracce erbose davvero disagevoli.
Niente acqua lungo tutto il tragitto. Solo un panorama bellissimo sul Re di Pietra, non molto distante.
Per il rientro, se non si vuole scendere alla Comba degli Uvert o ritrovarsi al fondo del Pian, conviene rifare a ritroso lo stesso percorso.
Il 20 agosto 2023, nel primo pomeriggio, sono stato in Val Formazza. Poco prima della frazione di Riale, essendo di domenica, un tizio mi impone di lasciare l'auto su un pratone per soli 5 euro: per la diga di Morasco c'è la navetta, un pulmino da 9 posti che passa ogni 20 minuti e lascia la gente sotto la diga. Non ho alternative e accetto.
Con pochi passi salgo sulla diga e la percorro per poi costeggiare il lago di Morasco sulla destra (la sponda nord) su sterrato fino ad una funivia privata dell'Enel. Imbocco il sentiero G00 in direzione nord-ovest (dai cartelli sembra la scelta obbligata) che consente il superamento del costone erboso che conduce ai piani superiori, fino ad un bivio.
Qui una palina (ce ne sono davvero tante in Val Formazza) mi invita a lasciare il sentiero per il Rifugio Città di Busto, a scendere di qualche metro su un baitello, superare il ruscelletto e a risalire a sinistra una dolce pietraia che diviene nuovamente sentiero tra spalle pratose e dossi erbosi, fino agli edifici del Rifugio Mores, presso la diga del Sabbione.
A questo punto, dopo essermi ben rifornito d'acqua ad una fontanella con il cartello "potabile", scendo a destra fino agli edifici di servizio dell'Enel e percorro tutta la diga sotto il sole pomeridiano di questo caldissimo agosto. Al termine della diga, un bel sentiero sulla sponda orografica sinistra, il G39, consente di superare il bacino artificiale in leggera ascesa fino al Rifugio Claudio e Bruno di quota 2710, uno dei due rifugi gestiti magnificamente dai volontari dell'OGM (Operazione Mato Grosso).
Ad attendermi, 11 fra adulti e ragazzi e qualche ospite come me. Qui, finalmente, levo gli scarponi, mi godo il fantastico panorama serale sul ghiacciaio del Sabbione. In attesa della cena, rileggo le parole di Battistino Bonali (scalatore deceduto nel 1993 sul in Perù) stampate sulle tovagliette di carta del rifugio:
"Grazie Montagna per avermi dato lezioni di vita, perché faticando ho imparato a gustare il riposo, perché sudando ho imparato ad apprezzare un sorso di acqua fresca, perché stanco mi sono fermato e ho potuto ammirare la meraviglia di un fiore, la libertà di un volo di uccelli, respirare il profumo della semplicità; perché solo, immerso nel tuo silenzio, mi sono visto allo specchio e spaventato ho ammesso il mio bisogno di verità e amore, perché soffrendo ho assaporato la gioia della vetta percependo che le cose vere, quelle che portano alla felicità, si ottengono solo con fatica e chi non sa soffrire mai potrà capire".
Il mattino seguente, il 21 agosto, dopo un'abbondante colazione, prima delle 8 sono già sul sentiero che parte da dietro la fontana del Rifugio, in direzione nord. Dopo il primo dosso erboso, il terreno diviene detritico, il sentiero si fa perfino sabbioso e la salita subito ripida e dura. Cammino in compagnia di alcuni volontari in servizio al Rifugio 3A. Il tracciato si mantiene sempre ben evidente, fra sfasciumi, roccette, ghiaioni, fino allo scollinamento del ghiacciaio del Gries, a sinistra di una grande sella. Da qui, per la prima volta, vedo la cima (ed il motivo per cui si chiama Corno Cieco). A questo punto, seguo la cresta ed affronto gli ultimi ripidi metri su fine detrito che conducono alla vetta. In cima al Blinnenhorn, in meno di un'ora e mezza dal Rifugio, trovo finalmente una croce di legno, un altare di pietra ed un piccolo manufatto del CAI di Cermenate recante una poesia di Antonella Fornari:
"... la mia casa è quassù fra lo sconfinare delle vette e i racconti del vento... la mia casa è quassù fra le altere pareti e misteriosi silenzi... la mia casa è quassù fra garrule acque e dolcissimi ricordi. Qui sono io, qui è la mia casa, qui sono le mie montagne".
Dopo aver "scollinato" il Passo del San Bernardino e affrontato i sinuosi tornanti dello Spluga, il 19 agosto 2023, giungo sul Passo, sul valico italo-svizzero dello Spluga, già percorso dai romani nel I secolo e, in linea d'aria, punto d'Italia più lontano dal mare. Qui finiscono le Alpi Lepontine ed iniziano quelle Retiche, qui terminano le Alpi Occidentali ed iniziano quelle Orientali.
A Passo trovo miracolosamente un posto dove parcheggiare l'auto, sotto il cartello che indica il confine di Stato.
Il sentiero per il Tambò (o Tambo) inizia proprio dietro l'edificio della dogana. Da qui viene rimontato il grande dosso erboso in direzione ovest e guadagnato lo spartiacque italo-svizzero (segnalato da un cippo di confine di pietra).
Il sentiero resta sempre ben marcato, calpestato e ricalpestato ogni anno dai numerosi escursionisti innamorati di questi cime.
Supero rapidamente dossi e pendii rocciosi fino a guadagnare il dosso della cresta. Poco più avanti la cresta si affila e raggiungo le rocce del Tamborello (o Lattenhorn) evitando di giungervi in cima con un breve aggiramento. Attraverso alcuni estesi macereti e risalgo qualche canalino roccioso fino ad una caratteristica spianata a quota 2700.
Al termine della valletta, supero un cucuzzolo roccioso giungo fino alla Sella di quota 2810 circa e proseguo sul costone puntando ad un grosso ometto di pietre fino a guadagnare il versante sud-ovest della montagna.
A questo punto, supero una serie di terrazzi rocciosi e alcune fasce di pietrame, con un occhio alle tracce e uno ai numerosi ometti di pietra, e giungo al cosiddetto Pan di Zucchero, una piccola vetta con una conca a circa 3000 metri. Piego così a destra, perdendo qualche metro di quota su ciò che resta del nevaio della Vedretta della Spianata, ma cercando sempre di restare il più possibile sulle cenge rocciose più alte.
Dopo un breve tratto di sfasciumi, giungo alla base della cresta sud della montagna. Bisogna ammettere che la sensazione offerta da questa montagna è quella di una sconfinata ammucchiata di rocce, quasi un'unica immensa pietraia.
Una traccia di sentiero risale ora su zone di sfasciumi alternate a pietre di medie dimensioni, su ripido terreno. Affronto così la seconda parte della cresta, con pendenze crescenti. Mi sposto a destra fino ad incrociare una fascia rocciosa. Traversando il versante ovest, supero alcuni terreni rocciosi con facili passaggi di I grado, talvolta verticali ma mai esposti, e giungo sulla spianata sommitale del monte dove mi aspetto un ometto di pietra ed una croce di vetta.
Passo del Sempione, 16 agosto 2023. Giungo quassù dopo un lungo viaggio che termina con l'attraversamento dei centri di Trasquera, Iselle, della dogana italo-svizzera, delle Gole di Gondo, Gabi, Simplon Dorf, Eggen, fino ai 2005 m. di questo meraviglioso Passo del Canton Vallese dove finiscono le Alpi Pennine e iniziano le Lepontine. Qui dove si ha la fortuna di calpestare l'antica mulattiera romana edificata nel 47 d.C., dove transitarono i Walser nel XII secolo, commercianti, soldati, gli ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, papa Gregorio X, gli ingegneri napoleonici e i galoppini del barone Stockalper, il boss del commercio del XVII secolo con base a Briga.
Parcheggio l'auto proprio davanti all'Ospizio del Sempione (edificio terminato da Stockalper nel 1666) ed imbocco immediatamente la stradina asfaltata sulla sinistra dell'Ospizio che dopo pochi metri conduce alle casette di Rotels (2040 m). Qui una palina indica un sentierino a destra che risale i pascoli soprastanti fino ad un grosso traliccio. Superato uno spallone erboso, a circa 2200, piego decisamente a sinistra lungo un sentierino che costeggia un canalino d'irrigazione e che conduce all'interno del Vallone Chalti Wasser.
Risalgo il vallone in diagonale in direzione Mäderhorn (2852 m), supero una vasta pietraia solcata da numerosi ruscelletti che scendono dal Chaltiwassergletscher (il ghiacciaio) e dotata di qualche ponticello in legno e giungo così su un'estesa placconata di rara bellezza. Un piccolo gregge di pecore/capre davvero strane, con pelo lungo, muso nero e qualche strano cornetto a spirale, mi passa accanto mentre, seduto, mi godo un sorso di caffè. A destra, l'Hübschhorn (3192 m) mi guarda impassibile. Mi sorprendo di quanta acqua coli da queste montagne ed il penoso stato in cui mi appaiono oggi questi ghiacciai.
Risalgo il valloncello su pietrame e altre facili placconate e aggredisco una ripida china di pietrame morenico che mi porta a quota 2790, un colletto che si affaccia sulla conca dello splendido laghetto di Chaltwasser.
A questo punto, abbandono il sentiero che attraversa la conca, viro a sinistra e risalgo zigzagando le pendici detritiche del Mäderhorn al fine di guadagnare la cresta SO del Wasenhorn, quella più diretta ma anche più impegnativa. Giungo così sulla Bocchetta della Mäderlicke (2887) dove un cartello mi intima di non toccare le bombe! Ne approfitto per ammirare il ghiacciaio sotto il Monte Leone, il re di queste montagne. Lo Chaltwassergletscher appare davvero molto crepacciato, morente, disidratato. A questo punto non mi rimane che percorrere la cresta con passaggi su rocce anche di II grado. Cerco in tutti i modi di rimanere il più possibile vicino al filo di cresta, approfittando di alcune cengette, gradini rocciosi e facili saltini.Giungo così in vetta dove trovo una croce di legno con un'inequivocabile targhetta metallica con tanto di Q-Code. Qualche metro più in là, un semplice ometto di pietra segnala il punto più alto della cima.Un tizio, poco dopo le placconate, mi aveva raccontato di cosa avrei trovato sulla creste e, aveva aggiunto, di come sarebbe stato facile scendere buttandosi giù sui detriti in direzione della Cabane del Monte Leone. E così faccio. Scendo quindi quasi verticalmente cercando comunque di rimanere il più possibile vicino al filo della cresta S, fino a giungere al Monte Leone-Hütte (2848), un simpatico rifugio dove riempio la borraccia di acqua piovana al modico prezzo di 3 euro.
Da lì, ritorno all'Ospizio ricalcando le mie stesse orme.
Nelle Alpi marittime, ad un paio di ore da Torino o dalla costa ligure, c'è un angolo di mondo che andrebbe visitato da tutti: è l'alta Valle Stura di Demonte, il trampolino per il Colle della Maddalena, paradiso di centauri e camperisti, ma anche luogo di terre alte.
Superato Vinadio e lasciata la SS21 all'altezza di Pianche, si raggiunge Bagni di Vinadio e si prosegue per San Bernolfo, una località frequentatissima d'estate grazie all'attrazione turistica esercitata dal vivace rifugio Dahu de Sabarnui. Qui, lasciata l'auto in una delle piazzole oltre il borgo, ci si avvia lungo la carrozzabile che si inoltra nell'omonimo vallone rimanendo sulla sinistra orografica del torrente Corborant. Occorre qui assicurarsi di non dimenticare il caschetto in auto, utile per la risalita del canale finale.
La carrozzabile comincia a risalire il versante con ampie svolte, poi diviene sterrato, poi ancora sentiero, fino a condurre al primo dei laghi superiori di quota 2500. Dopo quasi un'ora e mezza si giunge ad un incantevole specchio d'acqua, il lago Lausfer inferiore (2501 m), un posto ideale per crogiolarsi al sole in totale relax. Contornando il lago sulla destra, il sentiero prosegue dolcemente tra rocce montonate, residui franosi e piccole zone erbose, fino a raggiungere il più piccolo Lausfer superiore (2580 m). Da qui è già possibile ammirare l'intera conca glaciale caratterizzata dall'incredibile mole di rocce franate (chissà quando) che contiene le pietraie dei monti e dal profilo delle creste del Corborant e del suo gendarme.
Costeggiando il lago ancora una volta sulla sponda orientale, si imbocca l'evidente sentiero che conduce al testa detritica del vallone, tra pietraie, creste moreniche, cengette e accumuli di massi franati. Dopo un lungo traverso in salita che consente di portarsi a ridosso dei contrafforti del Corborant, con una larga curva, si giunge in corrispondenza del marcato canalino detritico tra il Gendarme del Corbobant e la cima principale. Si risale alla meglio il canale, davvero molto deteriorato, fino all'anfratto formatosi in seguito alla caduta di un gigantesco masso, un passaggio chiamato "Buco della Marmotta". Infilatisi nel buco, si sale rapidamente il muro con l'ausilio di qualche staffa di ferro e si esce da un foro posto alle proprie spalle.
Fuori da buco si prosegue su facili roccette e detriti fino a giungere sulla forcella che consente di affacciarsi finalmente sul lato francese della montagna (2900 m). La traccia, anche contrassegnata da tacche di vernice rossa, conduce ora a sinistra ad un diedrino gradinato e ad una placca liscia che viene superata con l'aiuto di catene.
Risalendo la cresta del Corborant per cenge e saltini rocciosi si arriva con pochi passi in cima alla punta, dove ci sarà un insolito sovraffollamento di segnali ad attenderci: croci, ometti di pietre, casette di ferro, targhe dedicate ad amici defunti (3010 m). Addirittura due libri di vetta.
Per la discesa occorrerà ritornare sui propri passi, cercando di non gettare pietre sugli escursionisti in salita nel canalino ed accettando con tibetana rassegnazione il lungo e monotono sviluppo della carrozzabile che conduce a San Bernolfo.
L'avrò visto innumerevoli volte dall'alto delle vette circostanti, l'avevo scrutato ben bene dal Meidassa, me lo ero appuntato più volte tra i progetti escursionistici... Tutti a Luserna mi dicono che l'acqua che fuoriesce dal mio rubinetto sgorga dal suo ventre, che questa montagna accessibile anche dalla Val Pellice è più amata dai francesi con la febbre da "tour" che da noi italiani... Così il 14 luglio del 2023, approfittando del passaggio in zona del caro Marco, eccomi pronto per esplorare da vicino, e di persona, la bella piramide rocciosa del Granero.
Lasciata l'auto a poche centinaia di metri dal Rifugio Barbara Lowrie (1756 m), nel Vallone dei Carbonieri, raggiungiamo il rifugio, ci beviamo un caffè, diamo un'ultima controllata allo zaino e, attraversato il torrente, cominciamo il nostro percorso di avvicinamento imboccando il sentiero 112 che conduce nel cuore della vallone del Pis. Lungo il sentiero una femmina di stambecco di color quasi bianco ci viene incontro. Qualche secondo di studio reciproco e continuiamo la nostra marcia. Affrontiamo l'ultimo ripido tratto e giungiamo rapidamente sul Col Manzol (2694 m) dove ci godiamo una meritata pausa tra le nebbie di calore che salgono dalla valle e gli squarci di sole che rassicurano l'animo. Un fugace sguardo a destra e sinistra, alle coperte cime del Manzol, del Meidassa e del Granero, al Lago Nero intrappolato sotto di noi, e cominciamo la discesa lungo l'Adret del Laus, il valloncello che ci porterà dolcemente al Rifugio Battaglione Alpini Monte Granero (2377 m).
Arriviamo al rifugio verso le 17, in tempo per una doccia calda ed una breve esplorazione dell'area. Si tratta del rifugio con la più lunga storia alle spalle dell'intero arco alpino. Ideato nel 1926 ed inaugurato nel 1928, negli anni 80 venne ampliato ed ammodernato fino a trasformarlo in una confortevolissima struttura da 50 posti, con docce calde e wi-fi. In posizione sopraelevata, il bivacco di recente costruzione per amanti dell'inverno. Poco prima di cena, ecco l'imprevisto: tre musicisti francesi, in tour attorno al Monviso con fisarmonica, violino, chitarra e tromba a seguito, cominciano il loro concerto di musiche e canti, e tra una gavotte francese ed un pezzo jazz afro-americano, ci accompagnano a cena. Il dessert è ancora meglio: alla luce del tramonto delle 20:30 e al fresco dell'altitudine, il concerto dei tre musici si sposta all'esterno del rifugio creando per gli ospiti un'atmosfera magica di incredibile bellezza.
Lasciamo il rifugio la mattina seguente alle 8. La giornata è splendida. Scendiamo lungo le rive del grande Lago Lungo, uno splendido specchio d'acqua in prossimità delle sorgenti del torrente Chisone. Qui una palina ci segnala la direzione da prendere per il Passo Seillierino e dunque per il Granero. Ci voltiamo per ammirare questo incredibile "giardino glaciale" su cui è adagiato il rifugio, composto da dossi montonati e conche di sovraescavazione, punteggiato di massi erratici e cordoni morenici. Una goduria da geologi. Sorprende l'intensità e la luminosità del color verde. La Schina d'Asu e le creste del Barsujas interrotte dai passi si riflettono nelle acque del lago e moltiplicano gli effetti della luce del mattino.
Cominciamo a risalire il sentiero lungo il filo della cresta morenica laterale chiamata in dialetto l'Isina d'Aze (la schiena d'asino). I tre musici francesi, come le fate che popolano le leggende di questa valle, ci precedono coi loro strumenti in spalla. Al bivio per il Passo Seillierino, tiriamo dritto fino ad entrare nella vasta pietraia alla base delle pendici del monte. Qui seguiamo le tacche bianco-rosse ed i numerosi ometti che ci guidano nell'attraversamento della distesa di pietre, massi erratici e pozze glaciali. Qua e là qualche sacca di neve. Gli artisti abbandonano i loro strumenti sotto un bel monolite e ci seguono nella ricerca dei bolli rosa che segnalano la pista di attacco all'ultimo canalino che scende dalla vetta. Infiliamo il caschetto e cominciamo a risalire il versante roccioso di questa imponente piramide tra pietre, detriti e sfasciumi. Troviamo alcuni passaggi di I-I+ che, superati di slancio, ci conducono fino alla base del castello finale di roccette.
Giunti al termite nel canalone ci si palesa in tutta la sua maestosità l'onnipresente mole del Re. La visione del Monviso. Adagiato sulla sella e cementato sulla roccia, un libro aperto di pietra sentenzia "Confidate in perpetuo in Dio, poiché Dio è la roccia dei secoli"; sull'altra pagina il celebre motto valdese Lux lucet in tenebris.
Il castelletto di roccette finale è l'ultimo passo alla vetta. Lo superiamo senza problemi e giungiamo così ai piedi della statua della Vergine a grandezza naturale (3170 m). Un ovale di pietra ne custodisce la dedica: "La Giovane Montagna di Moncalieri a Maria Immacolata 1958". In cima saremo una decina e ci si muove a fatica. Qualche escursionista scende, mentre un paio di arrampicatori arrivano da altri versanti.
Il ritorno a casa si svolge a ritroso sulle stesse linee percorse per venire fin qui. Ma molte cose sono nel frattempo cambiate e ce le portiamo dentro, negli occhi, nel cuore, e sul viso. Una sensazione di piccolezza di fronte a tanta grandiosità, un senso di gratitudine profonda per la vita, per il vento ed il sole, per la luce ed il movimento. Per la melodia degli strumenti ed il calore degli amici. Per la ricchezza delle differenze e la forza degli universali.
La nostra gita termina, dunque, al rifugio Barbara, tappa dell'annuale Trail Tre Rifugi, con un ricordo in più nell'anima ed una birra in mano.