sabato 10 novembre 2012

Dal coma alla cima

Chi vuol andare in montagna, come prima cosa, dovrà svegliarsi dal coma: dal coma del letto e della notte e dal coma della vita quotidiana, forse anche peggiore. Poi dovrà alzarsi, lavarsi, fare una buona colazione, scrutare il cielo fuori dalla finestra, preparare le ultime cose dello zaino ed uscire presto, quando è ancora buio. Dovrà mettersi in macchina, forse prendere una tangenziale, poi una statale, ed infine, gettare il suo primo sguardo sulle colline di fronte al parabrezza.
Ecco allora poggi e colli, valloncelli e villette, il mare ondulato e calmo delle colline che ispirano nostalgia. Le colline sono morbide, familiari, abitate, malinconiche. Sono ciò che ci sta vicino, qualcosa che ci è noto ma che, nello stesso tempo, evoca il desiderio di selvaggio.
Costui, continuando, entrerà in una valle fino a giungere ad un paesello dove parcheggerà la sua auto. Qui ha inizio l'avventura. Comincerà a salire lungo un sentiero che si infila nel bosco. Dopo una breve scarpinata lungo le pendici del monte, si volterà indietro per un attimo e scorgerà il villaggio alpino dall'alto, più piccolo di quanto sembrava a prima vista. A questo punto, si troverà immerso nella selva oscura, nella foresta, nel luogo dove comincia a prendere vita l'immaginazione.
Il bosco apparirà ai suoi occhi come il punto di intersezione fra la civiltà e la barbarie, tra il prima e il dopo, tra il 'vicino' ed il 'diverso'. La foresta buia, il bosco ombroso, dovrà essere attraversato tutto, come la vita.
Uscito dal bosco, sbucherà probabilmente su un pianoro o su una spalla erbosa, si troverà di fronte un vallone e procederà lungo un sentiero che lo porterà in direzione di un passo, di un valico. È probabile che, salendo, troverà lassù, in alta montagna, un rifugio od un bivacco. Qui, l'immagine della montagna, comincerà a divenire potente.
Il rifugio o il bivacco, come le foreste, rappresentano un limite, un confine oltre il quale, se costui vorrà proseguire, ci si inoltra nella terra del pericolo reale. Spesso sorge su uno spartiacque, su un valico, sfidando gelo, vento, fulmini e piogge, nevi e ghiacci, nebbie e tempeste. Spesso è solo un piccolo guscio di legno o un bozzolo metallico, ancorato sul bordo del dramma. Se fatto di tela è come una seconda pelle.
Lassù costui scoprirà che "il rifugio - scrisse una volta il giornalista-alpinista torinese Enrico Camanni - è un luogo senza tempo, un limbo, un piccolo santuario con le candele sempre accese, il crocifisso sopra il tavolo di legno, la penombra che anche in pieno giorno conferisce all'ambiente un senso di pace e un alone di mistero. Per entrare ci si toglie le scarpe, come in molti luoghi sacri, e quando la notte sale dal fondovalle con le sue inquietudini si abbassa il tono di voce, quasi a sussurrare una preghiera perché il tempo sia benigno e qualche dio si prenda cura degli alpinisti, l'indomani".
Oltre il rifugio troverà le pietraie e, con esse, il sudore. E allora, comincerà a ballare: salti, saltelli, frenate e scivolate. Perché la pietraia è terreno di equilibrismi. Occorre concentrazione e riflessione per procedere su sfasciumi e ghiaioni senza perder di vista segnali rossi, pennellate gialle, ometti e castelletti di pietra. La pietraia è il monumento per eccellenza dello sgretolamento del mondo: i monti franano, si sbriciolano, si consumano continuamente, inesorabilmente. I suoi tracciati scompaiono, scivolano, mutano ad ogni passo. Sulla pietraia, l'escursionista dovrà usare piedi, testa e forse mani, dovrà costantemente valutare con gli occhi e con il passo leggero cos'è fermo e cosa si muove.
Sulle pietraie e sulle morene punterà a un passo, ad un valico, ad una cresta. A pochi metri dal passo proverà il brivido della sorpresa, il desiderio di sbirciare dall'altra parte, del potersi affacciare sul mondo che si arrampica dall'altro lato della barricata. I valichi sono luoghi di passaggio da un mondo alpino ad un altro. Sono luoghi di commercianti, contrabbandieri, pellegrini, banditi e partigiani. Lassù si fa sosta prima di continuare o di scendere. È il bivio, è il luogo in cui si valutano le possibilità. Si è simultaneamente su due lati e si deve scegliere: salire alla vetta o godersi il passo e tornare a casa. Se deciderà di proseguire, molto probabilmente, dovrà incamminarsi su una cresta, su un crinale, su quel filo di roccia che marca il confine tra due mondi e che conduce, prima o poi, alla vetta.
Giunto in vetta, troverà freddo, fame e solitudine ma anche estasi, sazietà e pienezza. Vedrà il mondo lontano e non avrà rimorsi. Godrà di valli, cime, ghiacciai e abissi profondi velati dalle nebbie di calore ascendenti. Si siederà sulla vetta sazio e felice. Perché la vetta non sarà solo il vertice di una montagna, ma sarà soprattutto un'apice di piacere e di fatica, di piacere nella fatica. Lassù sentirà soffiare il vento che fa coppia col proprio respiro, udrà il volo del gracchio, capirà che l'impresa è finita.
Molte volte la cima rimane velata fino all'ultimo: si cammina senza ombre sulla testa, senza scorgere su di sé altre rocce, illudendosi di arrivare e scoprendosi sull'ennesima anti-cima; in questi casi, dovrà superare la delusione e ripartire con fede. Finché apparirà la vetta, come un'epifania. In cima troverà il sole ed il vento, la materia perderà il suo peso, la testa si svuoterà per qualche istante, il sudore diventerà freddo, lo spirito si tufferà in una beata solitudine e si capirà finalmente che il piano di evasione è miracolosamente riuscito. In vetta proverà una grande beatitudine, il suo corpo produrrà gran quantità di dopamina, si sentirà piccolo, annegato nel cielo, perso tra le vette che cercherà con difficoltà di riconoscere e battezzare, comincerà a pensare alla discesa. Più su non si può andare. Dopo qualche minuto, smetterà di desiderare e, non sazio, inizierà già a prenotarsi per la prossima vetta, quella che non esiste: "anche l'Everest - scrisse Reinhard Karl, l'alpinista tedesco morto nel maggio del 1982 sulla parete sud del Cho Oyu - è solo un'anticima. La vera cima non la raggiungerò mai".
Presto dovrà scendere e ritrovare il peso della materia, la fatica di dover accettare la vita di pianura. Non dovrà attardarsi troppo in cima perché indugiare è pericoloso: presto vento, buio e freddo giungeranno in quota. Proverà stanchezza e malinconia, le ginocchia cominceranno a soffrire ma proverà anche il piacere di rivedere gli stessi paesaggi attraversati qualche ora prima da un'altra prospettiva: i prati, le rocce, il sentiero. E potrà ricordare la sua "impresa" e, chissà, forse anche raccontarla - se si ha la fortuna di avere qualcuno interessato ad ascoltarla. Ritroverà la macchina al parcheggio, si toglierà gli scarponi, berrà un sorso di caffè, si cambierà la maglietta, scenderà a valle, arriverà a casa, si farà una sacrosanta doccia e, finalmente, si infilerà a letto. E nel morbido letto, si stirerà le gambe e la schiena, l'acido lattico salirà dolce lungo le cosce, chiuderà gli occhi e rivedrà il camoscio, la genzianella, il dente del gigante ed il profilo della cresta. E si addormenterà ripensando alla montagna, cullato da quel meraviglioso e interminabile racconto che è la montagna. "Ogni ora trascorsa in montagna, ogni salita è un bel libro, sfida le nostre forze e la nostra intelligenza, ci dona un momento di gioia" (Carlo Grande, Terre alte, Adriano Saliani Editore, Milano 2008, pag. 213).

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